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Perché la Bce di Mario Draghi sbuffa (troppo) per la riforma fiscale di Trump

Che cosa dice la Bce della riforma fiscale voluta da Trump negli Stati Uniti e che cosa dimentica la Banca centrale presieduta da Mario Draghi… Gli aedi della concorrenza che pullulano nei palazzi europei, fra Bruxelles e Francoforte, ora temono la concorrenza altrui. Due pesi e due misure? Chissà, eppure i timori che si percepiscono…

Gli aedi della concorrenza che pullulano nei palazzi europei, fra Bruxelles e Francoforte, ora temono la concorrenza altrui. Due pesi e due misure? Chissà, eppure i timori che si percepiscono per la riforma fiscale di Donald Trump negli Stati Uniti fanno sbuffare e preoccupare anche la Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi, che però dimentica forse di sottolineare la bontà di ridurre la pressione tributaria. Ecco dettagli, numeri e commenti.

I TIMORI DELLA BCE

La riforma delle tasse varata negli Stati Uniti “rischia di intensificare la competizione fiscale a livello globale, comportando una possibile erosione delle basi  imponibili nei Paesi dell’Ue”. Vale a dire una riduzione delle entrate fiscali. Lo rivela la Banca centrale con sede a Francoforte in un’anticipazione del Bollettino economico, in cui suggerisce che la riforma impatterà sull’area euro, attraverso “cambiamenti nel panorama fiscale internazionale, le cui conseguenze sono altamente incerte e complesse”. Più nel dettaglio la riforma impatterà positivamente a breve termine sull’economia Usa, determinando un rialzo “tra lo 0,5% e l’1,3% del Pil nei prossimi tre anni”, mentre gli effetti a lungo termine saranno “più incerti”.

LE OPINIONI SULLA RIFORMA

Se molti osservatori hanno giudicato la mossa dell’amministrazione americana come una sorta di ritorsione degli Stati Uniti verso l’Europa, di questo avviso non è l’economista Dario Stevanato, Professore ordinario di diritto tributario presso l’Università di Trieste e Avvocato cassazionista: “Se ne possono certo discutere singole previsioni, ma più che una “dichiarazione di guerra” la riforma della fiscalità societaria Usa appare un ammodernamento dei meccanismi della tassazione e un legittimo tentativo di riguadagnare la competitività perduta”, ha scritto su Lavoce.info.

I DETTAGLI SULLA MOSSA FISCALE USA

Ecco perché la manovra trumpiana non può essere visto come una politica fiscale ostile agli altri paesi anche se per l’Europa costituisce di sicuro una sfida: “La participation exemption – cioè, per quanto qui interessa, l’esenzione dei dividendi – è un meccanismo per evitare la doppia imposizione, in questo caso transnazionale, degli utili societari, previsto dall’Unione Europea fin dalla direttiva “madre-figlia” del 1990 sui dividendi intracomunitari (esteso dall’Italia anche ai dividendi extraeuropei a partire dal 2004)”, scrive l’economista.

LA VERITA’ SULLE ALIQUOTE

Quanto alla riduzione dell’aliquota corporate deliberata dal Congresso Usa: “E’ stata consistente (dal 35 al 21 per cento), ma si è contestualmente superata la bizzarra struttura progressiva delle aliquote (con un massimo del 35 per cento), allineando così il sistema americano allo standard internazionale che prevede di solito un’aliquota societaria flat. La nuova aliquota è di poco inferiore alla media Ocse, mentre quelle di molti paesi europei sono allineate o inferiori al 21 per cento, come la Svezia (22), il Regno Unito (19), la Polonia (19), l’Irlanda (12,5), l’Ungheria (9) e così via”.

CONFRONTI A SORPRESA

Conclude Stevanato: “Non va poi trascurato che negli Usa anche i singoli stati applicano di solito un’imposta sul reddito societario, che secondo la media pesata dall’Ocse per i 50 stati americani è pari al 6 per cento. Per fare un raffronto col nostro paese, ciò rende il prelievo complessivo sulle società statunitensi (imposta federale e imposta statale) di entità simile a quello sulle società italiane (considerando l’Ires al 24 per cento e l’Irap al 3,9 per cento). Ma non basta: accanto alla riduzione dell’aliquota societaria, il Tax Cuts and Jobs Act ha ampliato la base imponibile, ad esempio restringendo la deducibilità delle perdite pregresse all’80 per cento del reddito tassabile, o limitando la deducibilità degli interessi passivi al 30 per cento del business’s adjusted taxable income (con norme che curiosamente riecheggiano quelle introdotte qualche anno fa dall’Italia)”.

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