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Ma non sarà che con De Meo John Elkann ha puntato sul pilota sbagliato?

Nell'ultimo periodo era sorto in Europa l'asse De Meo - Elkann per far sentire a Bruxelles la voce degli industriali dell'auto. Ma il top manager alla guida della Casa francese s'è sfilato di colpo, lasciando l'onere sulle spalle del presidente di Stellantis (sulla cui volontà di permanere nell'automotive malignano in molti). Che succederà ora? La lettera di Carlo Terzano

Caro direttore,

quando un pilota abbandona la propria scuderia non è mai un buon segno. Personalmente sono contrario ai titoli urlati che includano termini abusati, ma penso che quello di AlVolante (Terremoto in casa Renault: Luca de Meo si dimette) pur rientrando in quella categoria ben fotografi lo sbigottimento di tutti. Intendiamoci, se si esclude il suo predecessore, Carlos Ghosn (la cui avventura imprenditoriale, è bene ricordarlo, è terminata con una fuga rocambolesca dal Giappone nascosto in un imballaggio per strumenti musicali) per il quale negli ultimi anni Renault avrebbe perso ogni chance di essere competitiva al di fuori dei confini europei, tutti riconoscono a De Meo di aver compiuto un piccolo-grande miracolo, riportando la vettura in carreggiata. Si dirà insomma che aveva fatto ciò che c’era da fare. Stupisce però che non l’abbia anche voluta portare al traguardo. Normale perciò chiedersi se esista ancora un traguardo per il mondo dell’auto, in particolar modo per quello europeo.

Perché se un top-manager che ha lavorato in Seat, quindi in Volkswagen e ha brillantemente guidato Renault in uno dei momenti più difficili del settore anziché proseguire la sfida (magari in Stellantis, ricordi quando nell’ambiente rimbalzavano con insistenza le voci secondo le quali il prossimo Ceo del post Tavares sarebbe dovuto essere proprio lui, un vero e proprio ritorno a casa avendo già guidato, sotto Marchionne, sia Fiat sia Alfa Romeo?) anziché saltare a bordo di una nuova avventura appende il casco al chiodo per andare a lavorare nel settore della moda (il marchio Kering S.A. ha in portafogli Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Alexander McQueen, Brioni, Boucheron, Pomellato, DoDo, ecc, ecc…) che peraltro non è certo uno dei comparti in maggior salute nell’attuale momento storico, forse la situazione per l’automotive europea è davvero senza futuro.

Non lo dico io, che potrei facilmente essere accusato di dietrologia spicciola, lo dicono i principali commentatori del mondo dell’auto. Ti segnalo per esempio l’interessante post LinkedIn di Gian Luca Pellegrini, direttore di Quattroruote: “Le dimissioni di Luca de Meo non sono un addio. Sono un messaggio. Luca de Meo lascia Renault, ma soprattutto lascia l’automobile. E forse, proprio per questo, il coup de théâtre rivela qualcosa che nessun altro ha il coraggio di dire. Perché proprio ora, dopo aver ricostruito uno dei gruppi più logorati del continente, con un piano strategico applaudito dalla critica e confermato dai numeri, De Meo se ne va per approdare a un universo più morbido come quello di Kering (così dice Reuters)? Che bisogno c’era? Che fretta?”.

“Forse – prosegue Pellegrini – il sospetto più fondato è anche il più inquietante: che De Meo si sia convinto che il sistema automobilistico europeo non si rialzerà più. Che l’automobile, come fenomeno sociale e industriale, sia stata esautorata dalle élite, umiliata dalla politica, sterilizzata dalla burocrazia. E che tutto questo si sia riflesso in un’irreversibile crisi esistenziale dell’intero sistema che ha come punto di partenza la delegittimazione dell’auto come simbolo. E senza simboli non c’è industria che tenga. In questo senso, il passaggio al mondo del lusso non sarebbe un tradimento, bensì un ritorno alla cultura. Perché la moda, il design, la bellezza — a differenza dell’auto — sono ancora autorizzati a parlare di sé senza colpa. L’auto no: deve giustificarsi, spiegarsi, scusarsi”.

Quindi da Pellegrini un j’accuse puntuale, circostanziato e, soprattutto, diretto ai massimi apici comunitari: “Ciò che ha spezzato il patto tra industria e società è stata la politica. Non la crisi climatica, ma la sua gestione punitiva e moralista. Non l’innovazione, ma l’obbligo univoco di accettarne solo una forma. E chi, come De Meo, ha provato a trattare — da dentro il sistema — si è accorto che il dialogo era chiuso. Che ogni richiesta di pragmatismo veniva letta come resistenza. E allora, meglio uscire in piedi che proseguire una guerra persa in partenza. È l’intelligenza di chi intuisce l’inizio della stagnazione, il rischio di diventare custode di un castello già costruito, mentre altrove si aprono nuovi spazi di influenza. De Meo lascia una Renault rifondata. Ma resta una domanda che pesa su tutto il settore: se uno come lui se ne va, chi resta a crederci davvero?”.

 

Ancora più conciso ma ugualmente ficcante, se mi permetti il termine, un esperto commentatore del mondo dell’auto del calibro Riccardo Ruggeri, già top manager del gruppo Fiat in Cnh: “L’ultimo car guy su piazza si dimette da Ceo di Renault per entrare nel mondo della moda. Ora è certificato – ha scritto su X – l’auto europea della Baronessa è follower della Cina. Complimenti!”

 

I francesi non ammetteranno mai che sarà difficile sostituire un italiano, ma tutti sanno che la vera sfida è questa. Mi chiedo però se la notizia sia stata presa peggio al di là o subito al di qua delle Alpi, in quel di Torino, perché negli ultimi tempi sembrava farsi strada l’ipotesi di una sorta di asse Elkann-De Meo, date le interviste e istanze congiunte rivolte direttamente al legislatore comunitario. Del resto De Meo voleva che i marchi europei dell’auto facessero squadra trasformando una somma algebrica di debolezze in un punto di forza (era lui a ripetere che bisognasse replicare il ‘modello Airbus‘ nel comparto auto): e così mentre si sfilacciavano le partnership con le Case nipponiche ci ha provato coi tedeschi per realizzare la famosa elettrica economica sui 20mila euro e s’è sentito dire ‘nein‘, ci ha provato con Elkann (assieme, Renault e Stellantis rappresentano il 30 per cento del mercato) trovando finalmente una sponda. Il problema, però, è che quell’asse sembrava davvero solo una somma di debolezze, specie se si osserva lo stato confusionale in cui versa Stellantis che solo ora prova a ripartire con un nuovo Ceo ma la ricetta sembra sempre la solita: tagli, tagli e ancora tagli.

Tra i commentatori molti, osservando i recenti investimenti di Exor, la holding Agnelli-Elkann, malignano che pure John Elkann sogni un futuro ben lontano dall’automobile. Almeno da quella occidentale (ricordiamo infatti gli 1,5 miliardi che Stellantis ha messo nella startup cinese di vetture elettriche Leapmotor). Non è del resto sfuggita la fiche di 2 miliardi su comparti come salute, lusso, immobiliare e tecnologia finanziata con le risorse ottenute dalla recente cessione del 4% di Ferrari. Bloomberg scriveva in merito: “Il nuovo investimento amplierebbe l’impegno della famiglia fondatrice di Fiat nel diversificare i propri interessi dal settore automobilistico a nuovi settori”. Un trend carsico in atto da parecchio tempo, se si considerano per esempio le mosse su Philips nel 2023. E si potrebbe continuare includendo anche i settori in cui operano le startup adocchiate ultimamente dal Gruppo.

Se fosse vero, l’alleanza tra De Meo ed Elkann era destinata comunque a durare poco e l’ex Ceo di Renault si sarebbe semplicemente defilato per primo. Visto in quest’ottica, l’addio del dirigente italiano sarebbe preludio di un autentico fuggi-fuggi non solo di top manager, ma anche di capitali. Una desertificazione industriale che trasformerà le case cinesi da invasori a salvatrici di un intero settore.

Come diceva Nino Manfredi nei panni di un monsignore di spicco di una Roma Papalina arrivata ormai al crepuscolo nel superbo In nome del Papa Re, “qui non è finita perché arrivano gli italiani, qui arrivano gli italiani perché è finita”. Basta sostituire ‘italiani’ con ‘cinesi’ e si ha forse idea di quanto sta accadendo all’industria automobilistica europea.

Un sempre più preoccupato,

Carlo Terzano

 

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