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Britishvolt Italvolt

Gli australiani riattaccano la spina alla gigafactory di Britishvolt

David Collard, il fondatore di Recharge Industries e amministratore delegato del fondo Scale Foundation, si è fatto avanti per salvare Britishvolt dal fallimento. Che succede ora?

Forse Britishvolt si accenderà davvero. A nemmeno un mese dall’istanza di amministrazione controllata, il curatore fallimentare sarebbe riuscito nella tutt’altro che semplice (vista la carenza di capitali pronti a scommettere nella gigafactory da 3,8 miliardi di euro e 3 mila lavoratori da costruire nel Nord dell’Inghilterra, a Blyth, in collaborazione con Pininfarina, Siemens, Aston Martin e Lotus) operazione di rintracciare un acquirente per la startup britannica.

GLI AUSTRALIANI A SOSTEGNO DI BRITISHVOLT

Per la precisione, si sono fatti avanti diversi interessati, ma Recharge Industries, azienda australiana di proprietà del fondo newyorkese Scale Facilitation Partners, è stata scelta quale miglior offerente nella procedura di vendita del compendio aziendale.

La realtà australiana ha già sottoscritto un contratto per acquisire le attività della società promotrice del progetto per la realizzazione di un impianto a Blyth, nella contea del Northumberland, per la produzione di batterie elettriche.

Secondo indiscrezioni, il vero regista del salvataggio sarebbe il baronetto Ian Botham, ex campione di cricket nominato nella Camera dei Lord dal governo di Boris Johnson, sostenitore politico dell’intervento dell’azienda australiana.

COSA È ACCADUTO A BRITISHVOLT

Che le cose non andassero troppo lisce dalle parti di Britishvolt si era intuito fin dal dicembre 2020 quando Lars Carlstrom era stato costretto a rassegnare le dimissioni inseguito dalle polemiche per una condanna per evasione fiscale che negli anni novanta gli era costata 10 mila euro di multa e 60 ore di servizi sociali in Svezia.

Anche se il debito con la giustizia e col fisco era stato pagato, difficile presentarsi ai diffidenti investitori britannici con un casellario giudiziale macchiato in tal modo. Tuttavia, pure senza Carlstrom alla guida, quei capitali per costruire la gigafactory britannica non sono mai arrivati.

L’UOMO CHE VOLEVA RISOLLEVARE SAAB

Lars-Eyvind Carlstrom, classe 1965, nato a Lulea, seconda città della Svezia per abitanti (poco più di 50mila), alle porte della Lapponia, un tempo nota soprattutto per le sue attività minerarie, mentre oggi, nell’epoca della dematerializzazione dei beni, per ospitare il primo data center di Facebook costruito al di fuori degli Stati Uniti, ha sempre avuto il pallino dell’automotive.

Per anni ha provato senza successo ad acquisire Saab, l’ormai dismesso marchio di Trollhättan che gli amanti del genere ricordano per avere messo sul mercato le auto più sicure al mondo (vi lavoravano i medesimi ingegneri dei jet), che poi si sono tradotte nelle auto più costose al mondo da fabbricare, con forte dispendio per la fabbrica, infatti, che dopo varie altalene finanziarie, nel 2016 ha chiuso definitivamente gli hangar, pardon, le autofficine.

DOPO BRITISHVOLT TREMA ITALVOLT?

E ora appunto c’è paura che il contagio si espanda anche a Italvolt, la gemellina mediterranea di Britishvolt. Anche la gigafactory piemontese è impantanata, avendo subito qualche rallentamento di troppo che la stessa realtà ha attribuito all’improvviso avvicendamento a Palazzo Chigi della scorsa estate.

«In quell’area – ha spiegato qualche giorno fa il manager alla Stampa – c’è un grande problema che riguarda la connessione alle rete elettrica degli impianti. Dobbiamo assicurarci che il sito possa ospitare le funzionalità di cui abbiamo bisogno, una fabbrica come la nostra consuma una quantità enorme di energia, stimiamo fino all’1% di tutta l’energia elettrica disponibile in Italia, per cui l’infrastruttura deve essere all’altezza. Ma ci troviamo in una situazione in cui la connessione alla rete potrebbe richiedere fino a quattro anni di lavori per essere raggiunta: noi non abbiamo tutto questo tempo perché la produzione, secondo i nostri piani, deve partire nel 2025. Stiamo lavorando per capire se è possibile accelerare i tempi e cosa possiamo fare ma non abbiamo rinnovato l’accordo con Prelios: di conseguenza non abbiamo più l’esclusiva sul sito».

COSA SAPPIAMO SULL’OPERAZIONE

Torniamo al salvataggio di Britishvolt. In realtà al momento si sa ancora piuttosto poco, a eccezione di quanto ha fatto trapelare EY, la società incaricata di supervisionare la procedura di amministrazione controllata e il processo di vendita, ovvero che il perfezionamento dell’intera operazione sia previsto “nei prossimi sette giorni”. A proposito di Recharge Industries, l’azienda australiana è già al lavoro, in patria, alla realizzazione di una gigafactory a Geelong, non lontano da Melbourne.

David Collard, fondatore e amministratore delegato del fondo Scale Foundation, ha dichiarato che la società australiana è «elettrizzata» e che «non vede l’ora di iniziare a realizzare i nostri piani per costruire la prima gigafactory del Regno Unito». Ha aggiunto: «Dopo un processo competitivo e rigoroso, siamo fiduciosi che la nostra proposta produrrà un risultato positivo per tutti i soggetti coinvolti».

L’australiano strappa Britishvolt dalla crisi acquistandola a un prezzo da saldo di 300 milioni di Sterline: meno del 10% del capitale richiesto per mettere in piedi la fabbrica, avendo al momento come solo azionista interessato alla realizzazione della gigafactory il Governo Tory che però si è limitato a mettere nel piatto appena 100 milioni. Resta da capire se gli australiani ci metteranno i rimanenti, magari attingendo dalle finanze e dai fondi di Collard oppure se anche loro inizieranno la caccia agli investitori. Che la storia recente di Britishvolt sembra suggerire che latitino…

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