A Tel Aviv alcuni taxi offrono una corsa con destinazione futuro. Telecamere riprendono quanto accade davanti, dietro e a lato del veicolo. Un suono avverte quando una bici supera a destra, un pedone attraversa all’improvviso o se ci si avvicina troppo all’auto che precede. In casi estremi, il co-pilota automatico interviene direttamente e frena per evitare collisioni. In Israele si guida già nel domani e le previsioni sull’arrivo dei veicoli autonomi entro pochi anni (mesi?) diventano improvvisamente più realistiche. Viene allora da chiedersi chi vincerà questa corsa all’auto senza pilota, quale sarà la prima azienda a mettere una macchina al volante.
Alla gara prendono parte tradizionali costruttori e colossi tecnologici, a volte in alleanza fra loro, altre in feroce competizione. E la sfida vive di continui sorpassi e controsorpassi. General Motors ha conquistato la testa giovedì 31 incassando un investimento da 2,3 miliardi di dollari dal Vision Fund di Softbank. Il fondo giapponese punta forte su Cruise, startup acquisita da Gm nel 2016 per 581 milioni e ora valutata oltre 11 miliardi. La più grande casa automobilistica americana conta di poter inserire veicoli autonomi nella sua flotta commerciale entro il 2020, ma ha già messo alcuni prototipi a disposizione dei suoi dipendenti a San Francisco e presto anche a New York.
COME VA WAYMO
Gm sembra così aver scalzato il principale rivale, Waymo, per lungo tempo in vantaggio. Non bisogna dimenticare, però, che la società del gruppo Google-Alphabet sarà la prima a offrire un servizio di trasporto completamente autonomo. A inizio maggio l’ad di Waymo, John Krafcik, ha annunciato che entro la fine di quest’anno una flotta di robo-taxi caricherà passeggeri per le vie di Seattle. E sempre giovedì, quasi rispondendo all’attacco di Gm-Cruise, Waymo ha siglato un accordo con Fca per la fornitura di 62mila monovolume Chrysler , in quello che rappresenta il primo passo verso la commercializzazione di massa negli Stati Uniti.
CHE COSA FA DAIMLER
Quanto all’Europa, Daimler insegue i due leader, Gm-Cruise e Google-Waymo, ma sta tentando di ridurre il distacco grazie alla partnership con Bosch, che detiene il maggior numero di brevetti in materia di veicoli autonomi (958 contro i 380 di Gm e i 338 di Google). A febbraio le due società hanno comunicato che nei prossimi mesi inizieranno a testare i loro primi robo-taxi. Uber, invece, ha annunciato il lancio di un servizio simile già per la metà del 2019 con un investimento stimato di oltre un miliardo di dollari. La guida autonoma è del resto al centro della strategia dell’unicorno guidato da Dara Khosrowshahi: nel 2016 Uber ha acquisito per 680 milioni Otto, startup che trasforma vecchi camion in moderni autonomous trucks. In totale, stima l’istituto Brookings, fra 2014 e 2017 la spesa in ricerca e sviluppo nel comparto autotech ammonta a 80 miliardi di dollari, con un’accelerazione impressionante negli ultimi due anni: l’86% degli investimenti è stato completato fra giugno 2016 e oggi.
LE STIME SUL MERCATO DELLE AUTO SENZA PILOTA
Del resto, secondo alcune stime, nel 2025 il mercato dei veicoli autonomi, potrebbe valere 42 miliardi di dollari. Intel (parte interessata) prevede che nel 2050 «l’economia dei passeggeri» consentita dai veicoli autonomi (taxi, mobilità condivisa, consegne…) possa valere addirittura 7.000 miliardi.
CHE COSA DICE L’ANALISTA DI BOSTON CONSULTING
Secondo Brian Collie, analista del Boston Consulting Group, i produttori tradizionali sono ancora i favoriti: «Waymo ha sviluppato sistemi fenomenali ed è un passo avanti», ha spiegato Collie, «ma non è ancora in grado di costruire una vettura da zero. Gm e, in Europa, Daimler sono ancora in vantaggio». Per questo c’è bisogno di stringere alleanze con i tradizionali produttori di automobili. In questo senso, l’intesa fra Mobileye, Intel e Bmw ha fatto scuola.
CHE COSA DICE LA START UP ISRAELIANA
«I veicoli autonomi sono dietro l’angolo, i nostri saranno in commercio entro il 2021», assicura a Milano Finanza Raz Peleg, direttore delle vendite di Mobileye per l’Europa centro-orientale e da sei mesi anche per l’Italia. La startup israeliana è stata comprata nel marzo 2017 da Intel per 15 miliardi di dollari, a oggi la più costosa acquisizione conclusa nel settore autotech. Mobileye sviluppa e vende tecnologie anti-collisione all’avanguardia che spaziano dal rilevamento di ostacoli alla frenata automatica. Fra i suoi clienti ci sono 37 produttori di componenti per auto e i suoi sistemi equipaggiano oltre 15 milioni di vetture nel mondo.
PERCHE’ L’EUROPA E’ UN MERCATO COMPLICATO
L’Europa resta però un mercato complicato: «L’Unione europea è un po’ lenta nell’adottare tecnologie retrofit (aggiornamenti di sistemi vecchi, ndr), preferisce aspettare che vengano inserite nei nuovi modelli dai produttori», spiega Peleg. «Lo dico con cautela, ma penso che la lobby delle case automobilistiche non sia sempre favorevole all’immediata adozione di tutti i sistemi di sicurezza più avanzati». Israele, invece, non è un Paese manifatturiero e perciò, secondo Peleg, le autorità locali si sono mostrate più inclini all’innovazione: «Nella cittadina dove vivo, il sindaco ha deciso che non dovevano esserci più incidenti fra bus e pedoni. È bastato inserire una riga nel bando di appalto per il trasporto pubblico: se vuoi lavorare nella mia città, la tua flotta deve avere sensori per il rilevamento dei pedoni».
LE TAPPE DEL PERCORSO PER LE AUTO SENZA PILOTA
I sistemi Adas (Advanced driver assistance systems) rappresentano però solo una tappa del percorso verso le auto senza pilota. A Gerusalemme Mobileye ha fondato il più grande centro al mondo dedicato alla ricerca per la guida autonoma. «I robo-veicoli non arriveranno sulle strade domani, è vero, ma tre anni non sono molti e bisogna farsi trovare pronti», sottolinea Peleg. «Non dipende solo da noi, ma anche dall’industria, dal pubblico e soprattutto dalle autorità».
L’ASSENZA DI STANDARD DI SICUREZZA CONDIVISO
A oggi, però, non esiste ancora uno standard di sicurezza condiviso: che requisiti deve soddisfare un veicolo a guida autonoma per poter condividere la carreggiata con i veicoli a guida umana? Mobileye ha provato a rispondere a questa domanda con Rss (Responsibility – Sensitive Safety), un modello di comportamento che aspira a diventare la prassi di riferimento per il settore. «Abbiamo racchiuso in una formula matematica tutti i 37 incidenti con veicoli autonomi», spiega Peleg. «Dall’analisi di questi dati abbiamo estratto regole di condotta universalmente valide, così sintetizzabili: un veicolo autonomo non causerà mai un incidente, ma potrà essere coinvolto in incidenti originati da comportamenti umani imprevedibili o spericolati».
GLI OSTACOLI AL SUCCESSO DELLE AUTO A GUIDA AUTONOMA
Insomma, con una revisione della prima regola della robotica di Asimov: «Un robot non può recar danno a un essere umano», a meno che quest’ultimo non sia un pirata della strada. Sicurezza e affidabilità, del resto, rappresentano i maggiori ostacoli sulla via del successo per le auto senza pilota. Secondo un sondaggio pubblicato a gennaio 2018, il 63% degli americani si dice preoccupato di viaggiare in una vettura completamente autonoma e il clamore mediatico suscitato dagli incidenti avvenuti in fase di test non ha certamente aumentato la fiducia dei futuri (possibili) consumatori. Anche la perfezione, però, ha un prezzo. Nel caso delle auto senza pilota, pretendere che siano senza difetti rischia di avere un costo umano importante.
LE STIME SUL MERCATO AMERICANO
Se i veicoli autonomi arrivassero sulle strade americane entro il 2020, stima la Rand Corporation, si potrebbero risparmiare negli Usa 1,1 milioni di vite nel giro di 50 anni. Se, invece, la data di commercializzazione venisse spostata al 2040, si eviterebbero soltanto 580mila incidenti, di cui la metà fatali. Nel 2020, è vero, la tecnologia rischia di essere ancora imperfetta, ma secondo il think-tank americano esiste un trade-off fra sicurezza e incidenti mortali. «Può suonare controintuitivo, ma l’attesa di auto più sicure potrebbe salvare meno vite. Il fattore più importante è il tempo», scrive Nidhi Kalra, autrice dello studio. «Questo è il classico caso in cui l’ottimo è nemico del buono».
(Articolo pubblicato su Mf/Milano finanza)