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Vi spiego perché Volkswagen e Ford si sono fidanzate (e che cosa farà Fca)

Tutte le ragioni industriali e tecnologiche dell'accordo annunciato da Volkswagen e Ford. Il commento di Ugo Bertone, giornalista, editorialista ed esperto del settore auto

 

I Giganti non sono più di moda. La profezia di Sergio Marchionne, che prevedeva non più di 5-6 gruppi globali a spartirsi il mercato mondiale dell’auto non ha retto al nuovo scenario imposto dalla rivoluzione tecnologica, dai vincoli regolamenti e dalle multe piovute sui grandi produttori.

La conseguenza è che alla stagione degli M&A (che in realtà è rimasta in buona parte sulla carta) segue quella degli accordi industriali, buoni per fare economia tagliando le spese. Il primo esempio della nuova filosofia è offerta dal deal annunciato a Detroit da Volkswagen e Ford. Le due aziende hanno deciso di condividere oggi investimenti e tecnologie, non escludendo di poter mettere in cantiere nel futuro prossimo la realizzazione di un nuovo veicolo.

A spingere verso l’accordo sono state le possibili sinergie. Dal punto di vista commerciale, il colosso tedesco è forte in Europa e Cina, l’intesa con Ford consentirà di annullare gli effetti dei possibili dazi Usa.

Ancora più interessanti gli sviluppi dal punto di vista tecnologico. Ford può mettere sul piatto i risultati eccezionali raggiunti nello sviluppo dell’auto a guida autonoma. Per la prima volta nella storia Volkswagen accetta di condividere una sua piattaforma, denominata MEB, con un marchio che non appartiene all’orbita di Wolfsburg.

Anche Ford potrà così sviluppare veicoli elettrici, in particolare Suv e minibus, in linea con le linee del gruppo tedesco. In questo modo Volkswagen ammortizza una parte dei costi della transizione all’elettrico (30 miliardi di euro nella prima metà degli anni Venti) mentre il gruppo di Detroit, che ha già investito 11 miliardi nell’elettrico, potrà liberare risorse preziose.

Ma l’alleanza, si fa sapere da entrambe le parti, sarà esclusivamente industriale e tecnologica, senza coinvolgere scambi azionari. E poco conta che, in questo modo, venga messa a rischio l’indipendenza nei confronti dei partner.

A tutelare il know-how, più che la proprietà, saranno i costi proibitivi che l’industria dell’auto dovrà affrontare in una congiuntura difficile e turbolenta. Le difficoltà del patto Nissan-Renault, del resto, dimostrano che la via azionaria non è per forza la più utile.

Non si parla più di alleanze invece per Fiat Chrysler. A Detroit il ceo Mike Manley è stato estremamente deciso in materia: Fca farà da sola. Non solo esclusi accordi parziali ma l’azienda ha ormai deciso di puntare su un futuro stand alone. Più per scelta che per necessità, ha spiegato Mike Manley in un lungo confronto con il New York Times in cui ha sottolineato che non si tratta di un “tradimento” del pensiero di Marchionne. Semmai il risultato positivo delle ultime, brillanti intuizioni dl leader scomparso ad agosto.

Di fronte all’ultimo secco no di General Motors, due anni fa, Marchionne decise un drastico cambio di rotta industriale: cancellati gli investimenti delle berline a partire dalla Chrysler 200, un modello pensato per integrarsi nell’offerta del partner di Detroit che però continuava a riservare grandi spese e vendite modeste.

Di qui la decisione di puntare tutto sul Suv, sia i giganteschi Ram che sulla Jeep, probabilmente l’auto di maggior successo della storia recente dell’auto che ha messo in crisi le vendite di Ford e Gm.

Una scelta ardita, contestata da chi prevedeva una stagione di crescita del prezzo del carburante, ma che si è rivelata vincente. Perciò oggi Fca può stare da sola o contrattare alleanza da una posizione di forza. In Usa (e il Brasile) sta bene com’è, la ricerca può contare, senza fretta, in Asia.

Resta fuori, per ora, il Bel Paese. Fca può attendere, l’Italia forse no.

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