Il governo della Cina ha chiesto alle case automobilistiche nazionali di mantenere nel paese le tecnologie avanzate per la mobilità elettrica anche se apriranno degli stabilimenti all’estero. In sostanza, le fasi di maggior valore nel ciclo produttivo di un veicolo dovranno avvenire in patria, e il mezzo verrà inviato oltreconfine solo per l’assemblaggio finale.
LA CINA VUOLE DIFENDERE LE SUE TECNOLOGIE PER LA MOBILITÀ ELETTRICA
Pechino, dunque, vuole preservare il proprio know-how ed evitare di perdere il vantaggio competitivo sull’automobile elettrica in una fase di espansione all’estero dei suoi principali produttori, come BYD o Chery, che in risposta ai dazi e alla saturazione del mercato domestico stanno valutando l’apertura di fabbriche in Ungheria, in Spagna o in Thailandia.
LE RACCOMANDAZIONI SU INDIA E TURCHIA
Il ministro del Commercio della Cina, stando alle fonti di Bloomberg, ha sconsigliato alle case cinesi di investire in India, forse per via delle tensioni politiche e territoriali con Nuova Delhi. Il mercato automobilistico indiano è attraente perché molto vasto, anche se il potere d’acquisto dei consumatori è limitato – un’auto elettrica, in media, costa più di un modello equivalente con motore termico – e la quota dei veicoli a batteria è piuttosto ridotta.
Le aziende cinesi interessate a investire in Turchia, invece, dovranno prima informare il ministero dell’Industria e l’ambasciata nel paese.
Lo scorso luglio BYD ha raggiunto un accordo con il governo turco sulla costruzione di uno stabilimento da 1 miliardo di dollari. L’interesse della società per la Turchia si spiega con la volontà di accedere al mercato europeo dopo che la Commissione ha introdotto nuovi dazi sulle auto elettriche importate dalla Cina. Anche Ankara, peraltro, ha imposto delle tariffe aggiuntive (del 40 per cento) sulle vetture cinesi per proteggere la produzione nazionale.
LA CINA SPEGNE I SOGNI INDUSTRIALI DELL’EUROPA?
A differenza di quelli statunitensi, i dazi europei non puntano a tenere lontani i produttori automobilistici cinesi bensì a incentivarli ad aprire stabilimenti sul territorio dell’Unione, portando benefici occupazionali e industriali. Ma la Cina non pare disposta a permettere che avvengano trasferimenti tecnologici.
A parti inverse, il tema era già stato sollevato dal vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovskis, secondo cui i dazi avranno l’effetto desiderato solo se le aziende cinesi verranno obbligate a rispettare delle norme di origine che stabiliscano un livello minimo di valore della vettura da creare nell’Unione.
Intervistato dal Financial Times, Dombrovskis si chiedeva appunto “quanto del valore aggiunto sarà creato nell’Ue, quanto del know-how sarà nell’Ue? Si tratterà solo di un impianto di assemblaggio o di una fabbrica di automobili? È una differenza sostanziale”.
Ricapitolando, l’Unione europea rischia di venire tagliata fuori dalle tecnologie critiche per la mobilità, come quelle per le batterie, e di limitarsi all’assemblaggio di automobili il cui vero valore aggiunto viene creato in Cina.
BRUXELLES RESPINGE LA PROPOSTA DELLE CASE CINESI
Giovedì la Commissione ha fatto sapere di aver respinto le offerte di alcune case cinesi sui prezzi minimi di importazione (price undertakings) dei loro veicoli elettrici nell’Unione europea. Questi prezzi avrebbero compensato i sussidi ricevuti in Cina, sollevando così le aziende automobilistiche dai nuovi dazi.
La Commissione, però, ha esaminato le offerte – delle quali non conosciamo i dettagli – per verificare se “eliminino gli effetti pregiudizievoli dei sussidi e [se] possano essere efficacemente monitorate e applicate”, concludendo che “nessuna delle offerte soddisfa questi requisiti”.
La settimana prossima Dombrovskis, che è anche commissario al Commercio, si riunirà con il ministro del Commercio cinese Wang Wentao.
I dazi proposti dalla Commissione – fino al 35,3 per cento, in aggiunta alla tariffa standard del 10 per cento – verranno implementati definitivamente entro la fine di ottobre, a meno che una maggioranza qualificata di quindici membri dell’Unione che rappresentino il 65 per cento della popolazione comunitari si esprima con voto contrario.