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Autostrade, la lezione delle Strade Ferrate e gli incubi di Gualtieri. L’analisi di Polillo

Il caso Autostrade e quanto avvenne agli albori del Risorgimento alle società per le Strade Ferrate. L'analisi di Gianfranco Polillo

Luigi Di Maio insiste nel voler revocare le concessioni ad Autostrade per l’Italia (Aspi) controllata da Atlantia, che soffre ancora in borsa, colpevole, tra le tante cose, di essersi fortemente intiepidita sulla vicenda Alitalia. Nicola Zingaretti, giustamente, nicchia. Sperando che, alla fine, la ragione possa trionfare. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, non sa ancora che pesci pigliare. Nel “mille proroghe” ha subito il diktat di chi voleva precostituire gli strumenti giuridici per mettere all’angolo la società. Una via in discesa per il preannunciato esproprio. Forse è tentato nel ripetere quanto avvenne a proposito del No Tav. Una lunga istruttoria per giungere a conclusioni ch’erano scontate fin dall’inizio. Non si poteva fare, salvo sobbarcarsi del pagamento di un indennizzo, che avrebbe complicato non poco lo stato delle già disastrate finanze pubbliche italiane. Ed allora non resta che sperare in Roberto Gualtieri, il ministro dell’Economia. Non tanto quanto responsabile del Tesoro, ma da storico attento delle vicende italiane.

Ai suoi più giovani colleghi di governo dovrebbe ricordare quanto avvenne in un lontano periodo. Era esattamente il 1876. Un’Italia certamente diversa da quella di oggi. Eravamo infatti agli albori del suo Risorgimento. Ma poi non così difforme da un punto di vista esclusivamente politico. Anche allora, come oggi, il Paese reale non era quello del Paese legale. Politici sempre più lontani da un comune sentimento popolare. Più attenti nel difendere le proprie consorterie, che a farsi carico dei grandi interessi nazionali. Ed ora, come adesso, erano prevalenti le aggregazioni regionali. I toscani ad esempio (ogni riferimento è puramente casuale) che si contrapponevano ai piemontesi. Il Mezzogiorno che scalpitava inutilmente, cercando di avere più voce in capitolo. Sia la Destra storica che la sinistra giovanile erano composte da un’aggregazione di notabili, pronti alle imprese più ardite, pur di assicurarsi un posto nelle stanze che contavano.
In questo magma si cominciò a discutere della nazionalizzazione della rete ferroviaria: in precedenza affidata a tre diversi gruppi finanziari: la Società per le Strade Ferrate dell’Alta Italia, che gestiva circa 3 mila km. di strada ferrata; la Società per le strade ferrate romane, che ne aveva poco più della metà; la Società per le Strade Ferrate Meridionali, che avendo incorporato la Società per le Strade Ferrate Calabro-Sicule, aveva raggiunto i 2 mila km. Un totale di 7 mila chilometri, contro i 14 gestiti dai Benetton. Statalizzare le Meridionali e la Romana era stato relativamente semplice. Salvo un gigantesco esborso da parte dell’Erario.

Il primo problema da affrontare, in ordine di tempo, fu lo stato delle Romane, nate su input di Papa re, al punto da richiamare, nel loro tracciato, il nome del Pontefice: Pio Latina, Pio centrale e Pio Emilia. Venuto meno il conforto dello Spirito santo, la società, sotto l’usbergo massonico, che caratterizzò gran parte storia patria, entrò rapidamente in crisi. Fu salvata con una legge del 1865. La concessione riassegnata alla stessa società che si era limitata a cambiare nome: “Società per le strade ferrate romane”. Fu anche deliberato una sovvenzione annua pari a 13.250 lire a Km. Che, tuttavia, non bastò. Nel 1870 la newco fu ancora una volta nella fase di dissesto. Iniziò allora una lunga trattativa, che durò dal 1973 al 1882, e che portò alla nazionalizzazione.

Più rocambolesca la storia delle Meridionali. Di proprietà del conte Pietro Bastogi, che aveva riunito intorno a sé il fior fiore del capitale finanziario italiano. Fortissimi gli agganci con la politica, visto che nel consiglio d’amministrazione sedevano ben 14 deputati ed il suo vice presidente era il barone Bettino Ricasoli. Colui che aveva sostituito Benso di Cavour alla guida del Regno. La società non si limitava alla gestione delle linee finanziarie, ma era presente in tutti i campi dell’attività finanziaria: dall’immobiliare alla gestione dei titoli del debito pubblico italiano. La sua governance fu punteggiata di scandali, che, tuttavia, non fecero deflettere il “barone di ferro” (come Bastogi era chiamato). Sul piano gestionale il suo obiettivo era quello di giungere alla completa gestione della rete ferroviaria adriatica. Vi riuscì con progressive acquisizioni e grazie ai sussidi statali.

Alla fine si scoprì che il gioco non valeva la candela. Troppo i disservizi denunciati. Eccessivo il costo posto a carico dell’Erario. L’idea di giungere ad una completa statalizzazione della rete, su cui Silvio Spaventa, come ministro dei Lavori pubblici del secondo Governo Minghetti (1873 -76), si era battuto inutilmente era giunta a maturazione. Correva l’anno 1906: Giovanni Giolitti, presidente del Consiglio. Fu tutt’altro che una passeggiata di salute. Il prezzo del riscatto fu pari a 30 milioni per 60 anni. Soldi che furono utilizzati dalla Bastogi, come era definita in borsa la società, per riconvertirsi nella produzione di energia, pur mantenendo la sua spiccata vocazione finanziaria. Cadde sotto i colpi della crisi del 1929, ma successivamente fu riprivatizzata (1973). Attiva ancora oggi nella sua veste di “Bastogi finanziaria” nell’immobiliare, nell’intrattenimento (anche culturale), nell’alberghiero e nei servizi commerciali.

Completamente diverse le vicende legate alla Società per le Strade Ferrate dell’Alta Italia. Il suo nucleo originario apparteneva allo Stato sabaudo. Gestita da ingegneri piemontesi era, all’epoca, un modello di relativa efficienza. Al punto che fu decisa di cederla ai privati in cambio 188,42 milioni di lire. Lo Stato, dal canto suo, garantiva un prodotto lordo di 28 milioni l’anno, per la durata di 95 anni. Era l’anno 1867. Previsione quella sul prodotto lordo garantito che si era subito dimostrata azzardata, dando luogo ad una serie infinite di contestazioni. Intanto la società, che faceva capo alla finanziaria dei banchieri Rothschild, cambiava look, dopo aver assorbito altre linee ferrate, fino a completare l’intera rete per il centro nord.

L’idillio durò solo un paio danni. Ben presto i conti della società si dimostrarono insostenibili, al punto che il governo Minghetti pensò di ricorrere ad una misura draconiana, quale quella della sua statalizzazione. In ciò sostenuto fortemente da Silvio Spaventa e da quella schiera di economisti che vedevano nel modello tedesco, voluto da Bismark, una delle possibili chiavi per dare una scossa al Paese. Il disegno di legge fu presentato nel 1865, ma suscitò immediatamente la dura reazione dei gruppi parlamentari. Il prezzo del riscatto proposto era ritenuto eccessivo. Forti dubbi erano espressi sulla qualità degli asset che dovevano essere ceduti.

Più in generale la sinistra non poteva non battere su una contraddizione evidente. L’anno prima, per raggiungere il pareggio di bilancio (al netto della spesa per interessi) era stata varata la “tassa sul macinato”, che aveva colpito duramente i ceti meno abbienti, dando luogo a rivolte e jacquerie soffocate nel sangue. Si correva ora il rischio di corrispondere alla grande finanza internazionale un regalo non meritato. Nella discussione parlamentare quel che rimaneva della Destra storica, già minata da profonde divisioni interne, si dissolse. Cadde, tartufescamente, su un semplice ordine del giorno che proponeva di discutere prima sulla tassa del macinato e solo dopo sul problema ferroviario. Ottenne la maggioranza dei voti della Camera, costringendo Minghetti alle dimissioni. Ma non fu solo una crisi di governo, ma un vero e proprio cambio di regime. Iniziava, così, l’epoca del trasformismo che aveva il volto emaciato di Agostino De Pretis. E che durerà fino all’avvento del giolittismo.

Per avere un’idea dei costi. Secondo una relazione del Tesoro (“Il debito pubblico in Italia 1961-1987”) per venire a capo dell’intera vicenda ferroviaria, nel periodo 1861-1914, lo Stato aumentò il debito pubblico di quasi 7,5 miliardi di vecchie lire: tra indennizzi, sovvenzioni e costruzioni in proprio delle infrastrutture.

Una cifra che corrispondeva a circa l’intero debito pubblico del 1870, quando il suo rapporto con il Pil era pari al 96 per cento. Di queste antiche vicende, soprattutto, Roberto Gualtieri, il guardiano dei nostri conti pubblici, dovrebbe far tesoro. La storia – diceva un vecchio saggio – si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Una lezione da non dimenticare.

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