Gli allevamenti di animali da pelliccia sono una “autostrada virale” che potrebbe scatenare la prossima pandemia. A lanciare l’allarme sono gli scienziati che hanno condotto in Cina uno dei più ampi studi sui virus ospitati dagli animali da pelliccia. Visoni, volpi e cani procioni da allevamento sono infatti serbatoi di una vasta varietà di potenziali agenti patogeni, sconosciuti ma anche noti in nuovi ospiti.
Il rischio è che questi luoghi diventino un ponte tra le persone e i virus che circolano nella fauna selvatica e come ricorda Eddie Holmes, virologo dell’Università di Sydney: “È così che si verificano le pandemie”.
I VIRUS CORRONO
Che negli allevamenti di animali da pelliccia si concentrino una miriade di virus che possono trasmettersi all’uomo gli scienziati lo sospettano da tempo e la strategia della Finlandia di vaccinare preventivamente gli esseri umani più esposti al rischio di influenza aviaria ne è la prova. Negli ultimi anni infatti il virus che causa la malattia ha attaccato diverse specie di animali dall’America all’Australia e fino all’Antartide.
Ma anche l’uomo è stato contagiato e, in un numero per ora limitato, si è riscontrato un nuovo sottotipo diverso rispetto al più noto H5N1. Inoltre, quando non c’è stato contatto con animali infetti (come nel recente caso del Missouri), il timore degli esperti è che si possa trattare o arrivare in un futuro non troppo lontano al salto di specie, il cosiddetto spillover, e dunque al contagio uomo-uomo.
LO STUDIO SUGLI ANIMALI DA PELLICCIA
Quest’ultimo studio sugli allevamenti di animali da pelliccia, condotto in Cina e pubblicato su Nature, “evidenzia che queste preoccupazioni sono valide e che la diversità dei virus con rischi noti per l’uomo è ancora maggiore di quanto si pensasse”, ha dichiarato Alice Hughes, biologa della conservazione presso l’Università di Hong Kong.
Gli scienziati che hanno partecipato allo studio hanno prelevato campioni di tessuto polmonare e intestinale da 461 animali morti tra il 2021 e il 2024. Di questi animali, 164 appartenevano a 4 specie allevate esclusivamente per la pelliccia: visone (Neogale vison), volpe rossa (Vulpes vulpes), volpe artica (Vulpes lagopus) e cane procione.
I tessuti erano prevalentemente di animali provenienti da allevamenti intensivi del nord-est della Cina. Gli altri da animali d’allevamento e selvatici utilizzati per la pelliccia, il cibo e la medicina tradizionale, diffusi in modo più ampio nella Cina orientale. Tra questi vi erano porcellini d’India, cervi e conigli. Tutti gli animali erano stati malati e probabilmente erano morti a causa di una malattia infettiva.
L’ANALISI E I RISULTATI
I ricercatori hanno quindi sequenziato l’RNA e il DNA dei campioni di tessuto e hanno trovato una moltitudine di virus. In totale ne sono stati identificati 125, tra cui molti virus influenzali e coronavirus.
Di questi, 36 non erano mai stati osservati prima e molti sono stati trovati in specie che non erano note in precedenza per ospitarli. Per esempio, hanno riscontrato il virus dell’encefalite giapponese nei porcellini d’India, il norovirus nei visoni, un virus dell’influenza aviaria H6N2 in un topo muschiato (Ondatra zibethicus) e soprattutto un coronavirus simile all’HKU5 – correlato a virus finora identificati solo nei pipistrelli – nei visoni.
Questi virus “sono quelli che mi colpiscono di più”, ha dichiarato Michael Letko, virologo molecolare presso la Washington State University, spiegando che alcuni di essi potrebbero essere in grado di adattarsi al recettore umano ACE2 per entrare nelle cellule4 , proprio come fanno alcuni virus, tra cui il SARS-CoV-2 del Covid-19.
Alla fine i ricercatori hanno classificato circa tre dozzine di virus come i più preoccupanti, a causa della loro capacità di passare da una specie all’altra. I cani procione e i visoni erano portatori di 10 di questi virus ad alto rischio, il maggior numero di tutte le specie.
I SUGGERIMENTI DEGLI ESPERTI
Per i ricercatori dunque le opzioni sono due: chiudere definitivamente gli allevamenti di animali da pelliccia, permettendo solo l’uso di quella artificiale, oppure imporre misure di biosicurezza più severe come “garantire l’attuazione di misure quali la quarantena degli animali, la riduzione del sovraffollamento e le regole per la pulizia delle gabbie, l’approvvigionamento di mangimi e lo smaltimento dei rifiuti”, in modo da evitare che gli agenti patogeni passino dagli animali alle persone.
Anche per Mark Oaten, direttore generale della International Fur Federation di Londra, che rappresenta gli allevamenti in più di 40 Paesi, gli allevamenti dovrebbero operare secondo i più alti standard di biosicurezza.
I NUMERI DELL’INDUSTRIA DELLA PELLICCIA
Tuttavia, per quanto le pellicce non artificiali non vadano più di moda (tranne che per lo stile mob wifes, letteralmente ‘mogli dei mafiosi’, secondo un trend di TikTok esploso a inizio anno) si tratta di un’industria che tenta ancora di resistere. Oaten, nell’ottobre 2023, affermava che il suo valore globale si aggira intorno ai 17 miliardi di dollari e che è “intrinsecamente legato all’industria della moda di lusso e ai mercati asiatici, dove la domanda è elevata”.
L’Unione europea, riferisce Euronews, è il secondo produttore di pellicce a livello mondiale, dopo la Cina, e per diverse organizzazioni animaliste, nel 2021 le esportazioni di pellicce dell’Ue hanno rappresentato 107,8 milioni di euro. L’industria rappresenta circa 100.000 posti di lavoro, distribuiti tra allevamento, produzione e vendita.
Stando ai dati di Human Society International, considerando visoni, volpi, cani procioni, cincillà e zibellini, senza contare conigli e animali catturati per la loro pelliccia, gli animali uccisi a livello globale negli allevamenti nel 2022 sono stati 10 milioni in Europa, 22 milioni in Cina, 2 milioni in Nord America e 600.000 in Russia.
PERICOLO MERCATI URBANI (NON SOLO IN CINA)
Ma il rischio che i virus presenti negli animali abbiano oltrepassato anche i confini degli allevamenti è già reale. I mercati urbani, come quello cinese di Wuhan da cui si pensa che sia esplosa la pandemia da Covid-19, non riguardano solo l’Asia. A New York infatti l’influenza aviaria è stata identificata in animali venduti nei mercati della Grande Mela, alcuni dei quali “inquietantemente vicini a scuole ed edifici residenziali”, scrive il New York Times.
La città ne ha circa 70 in cui vengono generalmente macellati e venduti polli, anatre e quaglie, con una minoranza che macella anche animali più grandi, come pecore, capre, mucche e maiali. Terreno fertile per la trasmissione del virus.
“A prima vista, i mercati di New York possono sembrare diversi da quelli di Pechino o Bangkok – afferma il Nyt -. […] Ma i mercati di tutto il mondo sono simili per le infinite opportunità di interazione tra uomo e animale che offrono”. Ogni anno, precisa il quotidiano, i mercati di New York presentano fino a 100 “carenze critiche” che possono portare alla contaminazione degli alimenti, a malattie o a rischi per la salute ambientale, e fino a 1.500 “carenze generali”, ovvero pratiche non igieniche che non sono abbastanza gravi da essere considerate un pericolo immediato per la salute pubblica.
LE CASE FARMACEUTICHE NON AMANO I RISCHI ELEVATI
Nonostante gli avvertimenti lanciati dagli scienziati di tutto il mondo di farsi trovare preparati per una prossima pandemia – 5 delle ultime 12 si sono verificate nel XX secolo, secondo la National Library of Medicine – e quella da Covid-19 abbia avuto un costo globale di circa 13.000 miliardi di dollari, con una riduzione del Pil mondiale pari al 3% solo nel 2020, stando al Fondo monetario internazionale, i gruppi di Big Pharma sembrano non preoccuparsene minimamente.
Reuters scrive infatti che non stanno investendo risorse nello sviluppo di vaccini. E sembrano nemmeno essere intenzionate a farlo nel breve periodo.
Pfizer e AstraZeneca, per esempio, sebbene conoscano i benefici economici derivanti da un vaccino che si rivela efficace (tra il 2019 e il 2022 il valore di mercato di Pfizer è aumentato dell’80% fino a 337 miliardi di dollari e il suo utile operativo è più che raddoppiato a 40 miliardi di dollari), stanno rispettivamente puntando su farmaci oncologici e per le malattie rare.
“A prima vista, questa reticenza è singolare”, afferma l’agenzia di stampa ma ricorda anche che “le malattie a bassa frequenza ma ad alto impatto, quelle che potrebbero causare pandemie, sono meno apprezzate dal mercato” e, ai grandi rischiosi guadagni, gli azionisti preferiscono la stabilità, come quella derivante dai vaccini con una domanda costante, tipo gli antinfluenzali.