“Uno dei peggiori sintomi del long Covid è anche il meno capito” titola The Atlantic parlando del brain fog, la cosiddetta nebbia cerebrale che molte persone dicono di aver sperimentato durante l’infezione ma in cui si sentono anche a mesi di distanza dalla guarigione.
DATI SUL LONG COVID…
Sarebbero almeno 17 milioni le persone nei 53 Paesi della regione europea dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) che hanno sperimentato nei primi 2 anni di pandemia il long Covid, secondo i criteri definiti proprio dall’Organizzazione per riconoscere questa patologia.
È stato, inoltre, osservato anche “uno sbalorditivo aumento del 307%” di nuovi casi di long Covid identificati tra il 2020 e il 2021, riferisce Rai News.
Inoltre, “la ricerca Ihme [Institute for Health Metrics and Evaluation, ndr] – afferma il suo direttore Christopher Murray – mostra che nei primi 2 anni di pandemia quasi 145 milioni di persone in tutto il mondo hanno sofferto di uno dei tre gruppi di sintomi che caratterizzano il long Covid: affaticamento con dolore fisico e sbalzi d’umore, problemi cognitivi, mancanza di respiro”.
…E PREVISIONI
“Milioni di persone negli anni a venire potrebbero dover convivere con questa sindrome”, ha avvertito l’agenzia che, insieme alle associazioni di pazienti riunite nel network Long Covid Europe, detta gli obiettivi per contrastare l’emergenza definendoli con 3R: recognition, research and reporting, rehabilitation, ossia identificazione, ricerca e segnalazione, riabilitazione.
COSA SUCCEDE A CHI SOFFRE DI BRAIN FOG
Chi prova il brain fog sostiene che non assomiglia a nessuna delle cose a cui la gente – compresi molti medici professionisti – la paragona. È più profondo del pensiero annebbiato che accompagna i postumi di una sbornia, lo stress o la stanchezza e non si tratta di un disturbo dell’umore.
Le testimonianze delle persone che soffrono di nebbia cerebrale vanno da chi si sente confuso a chi non riesce a riempire un modulo o a formulare frasi semplici, se non molto lentamente.
“La sua memoria, un tempo vivida, si sente sfilacciata e fugace. Le banalità di un tempo – comprare il cibo, preparare i pasti, pulire – possono essere angosciosamente difficili”, scrive The Atlantic raccontando l’esperienza di una paziente. “Per più di 900 giorni, mentre gli altri sintomi del long Covid si sono alternati, la sua nebbia cerebrale non si è mai veramente dissolta”.
Fortunatamente la maggior parte delle persone affette da nebbia cerebrale non è sempre colpita in modo così grave e migliora gradualmente con il tempo, ma anche quando le persone si riprendono a sufficienza per lavorare possono comunque dover lottare con una mente meno agile di prima.
I DATI SULLE PERSONE CON BRAIN FOG
Tuttavia, riferisce The Atlantic, il 20–30% dei pazienti riporta nebbia cerebrale tre mesi dopo l’infezione iniziale, così come il 65–85% delle persone con long Covid che rimangono malate per molto più tempo.
Questo sintomo non riguarda solo pazienti che hanno necessitato di un ventilatore o di cure ospedaliere a causa del Covid. Può colpire anche giovani che non hanno sperimentato un grave decorso della malattia.
IL SINTOMO PIÙ INCOMPRESO
Di tutti i numerosi sintomi del long Covid, la nebbia cerebrale “è di gran lunga uno dei più invalidanti e distruttivi”, ha detto al giornale Emma Ladds, specialista in cure primarie dell’Università di Oxford. Ed è anche uno dei più incompresi, tanto che all’inizio della pandemia non era nemmeno inserito nell’elenco dei possibili sintomi del Covid.
IL BRAIN FOG NON È UNA NOVITÀ
Il brain fog, però, non sembra nuovo alla scienza. Queste sensazioni descritte dai pazienti, si legge nell’articolo, ricordano quelle che colpiscono “persone che convivono con l’HIV, gli epilettici dopo le crisi, i malati di cancro che soffrono del cosiddetto ‘cervello da chemio’ e le persone con diverse malattie croniche complesse come la fibromialgia”.
Ma spesso, dichiara un paziente, queste persone sono state liquidate con la frase: “È solo un po’ di depressione”.
COSA DICONO GLI ESPERTI
Per Joanna Hellmuth, neurologa presso l’UC San Francisco, “si tratta quasi sempre di un disturbo della ‘funzione esecutiva’, l’insieme di abilità mentali che comprende la concentrazione dell’attenzione, la memorizzazione delle informazioni e il blocco delle distrazioni”.
La memoria, infatti, soffre ma in modo diverso rispetto a quanto accade in condizioni degenerative come l’Alzheimer. “I ricordi ci sono, – scrive The Atlantic – ma con il malfunzionamento della funzione esecutiva, il cervello non sceglie le cose importanti da memorizzare né recupera le informazioni in modo efficiente”.
MANCANO GLI STRUMENTI PER LA DIAGNOSI
Un altro problema, affermano gli esperti, è che mancano gli strumenti giusti per misurare il brain fog. Il Montreal Cognitive Assessment, un esame spesso utilizzato per individuare problemi mentali estremi nelle persone anziane affette da demenza, non è convalidato per chiunque abbia meno di 55 anni e altri test non riescono a confrontare la condizione precedente al Covid di un paziente con quella attuale.
LE PROVE DEGLI EFFETTI SUL CERVELLO
Tuttavia, un team di ricercatori britannici è riuscito a colmare questa mancanza e a dimostrare che non si tratta di una patologia psicosomatica ma che anzi comporta cambiamenti reali nella struttura e nella chimica del cervello.
All’università di Oxford, riferisce The Atlantic, gli studiosi “hanno analizzato i dati dello studio UK Biobank, che aveva scansionato regolarmente il cervello di centinaia di volontari per anni prima della pandemia. Quando alcuni di questi volontari si sono ammalati di Covid, il team ha potuto confrontare le scansioni successive con quelle precedenti”.
I ricercatori hanno scoperto che anche le infezioni lievi possono rimpicciolire leggermente il cervello e ridurre lo spessore della materia grigia ricca di neuroni e, nel peggiore dei casi, questi cambiamenti erano paragonabili a un decennio di invecchiamento.
In particolare, erano interessate “aree come il giro paraippocampale, importante per la codifica e il recupero dei ricordi, e la corteccia orbitofrontale, importante per le funzioni esecutive”.
Uno scenario che lascerebbe immaginare il peggio, ovvero l’irreversibilità della condizione ma Michelle Monje, neuro-oncologa a Stanford, ritiene che nella maggior parte dei casi il virus danneggi il cervello senza infettarlo direttamente e questo significa che la nebbia cerebrale è “potenzialmente reversibile”.