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Energia

Ecco le vere tensioni fra Governo e Commissione Ue sul Recovery Plan

Che cosa succede davvero fra Roma e Bruxelles sul Recovery Plan? Tutti i motivi per cui la Commissione europea sta borbottando per le mosse del governo Conte. L'approfondimento di Giuseppe Liturri

 

In queste ore i grandi media ci raccontano di accese discussioni in corso a Roma sul Recovery Plan, che potrebbe costituire il casus belli per una crisi di governo.

Questo è quanto trapela dalle veline sapientemente veicolate da Palazzo Chigi. Ciò che invece non ci dicono è che il vero conflitto non è a Roma, ma tra Roma e Bruxelles. Ma per averne evidenza bisognerebbe aver studiato le centinaia di pagine di documenti pubblicati dalla Commissione dal 28 maggio ad oggi. Chi lo ha fatto non può non avere evidenza che i progetti inseriti dal Governo nelle bozze fin qui circolate, potrebbero suscitare molte perplessità, come in effetti sta accadendo, se messi in confronto con le linee guida definite dalla Commissione.

Da qui l’affanno del Governo che, se non presentasse già ora un piano coerente con quei parametri, si ritroverebbe a subire una palese e sonora bocciatura durante i due mesi successivi alla scadenza del 30 aprile (prevista per la presentazione dei piani) in cui la Commissione dovrà valutarli formalmente.

Qualche occhiuto burocrate di Palazzo Berlaymont sta facendo notare ai tecnici di via XX Settembre che, ad esempio, il generoso credito di imposta del 50% per investimenti “industria 4.0” che il Governo intende finanziare con il Recovery Fund, è scarsamente compatibile con i roboanti obiettivi di “transizione digitale” scritti dalla Commissione.

Forse non basta collegare un macchinario alla rete aziendale e consentire la teleassistenza per beneficiare dei prestiti (perché sempre di questo si tratta, non di “aiuti”) dell’Unione. Con l’aggravante che questo beneficio esiste in Italia sin dal 2018 (cosiddetto iper ammortamento). Dov’è la rivoluzione, si chiedono a Bruxelles?

Per celare l’imbarazzo sui contenuti, l’attenzione viene focalizzata sui numeri. E qui siamo al livello dei carri armati di Mussolini; sempre gli stessi, ma spostati di città in città in occasione di ogni parata.

In settimana, dopo la pubblicazione delle linee di indirizzo per la bozza del Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) da sottoporre al Consiglio dei ministri che potrebbe tenersi martedì 12, è stato tutto un fragoroso scoppiettare di “fondi aggiuntivi”.

Al famoso assegno di 209 miliardi, con il quale la leggenda narra che Conte sia tornato da Bruxelles lo scorso 21 luglio, nell’ultima bozza del PNRR si sono aggiunti circa 20 miliardi del Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) che non è affatto uno strumento nuovo.

Quasi allo stesso modo, la quota di prestiti del Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza (RRF) destinati ad investimenti aggiuntivi (quindi non compresi già nei saldi di finanza pubblica) dovrebbero salire a circa 60 miliardi dai precedenti 40 e, specularmente, dovrebbero scendere da 87 a 67 miliardi i prestiti destinati a finanziare investimenti già programmati. Infatti il totale dovrà sempre fermarsi a 127 miliardi. Non c’è un centesimo in più. Ricordiamo solo che Matteo Renzi avrebbe voluto che l’intera cifra fosse dedicata ad investimenti aggiuntivi ma, come è sottolineato nelle linee di indirizzo, “La ripartizione tra progetti in essere e nuovi progetti tiene conto della sostenibilità del quadro di finanza pubblica. Sulle nuove generazioni infatti non deve gravare l’onere di un eccessivo indebitamento”.

Il nostro indebitamento aumenterà per “soli” 60 miliardi anziché 127, poiché i residui 67 saranno debiti che avremmo comunque contratto con gli investitori privati emettendo BTP. Quello che non ci dicono è il rischio tuttora pendente che Eurostat richieda che il contributo che l’Italia ha già assicurato al bilancio UE per consentire il rimborso dei bond emessi per corrispondere i sussidi – circa 51 miliardi, cioè il 13% di 390 miliardi – sia calcolato immediatamente come debito. Ci permettiamo di annunciarvi che questo tema, tuttora sottotraccia, sarà la prossima “scoperta” dei grandi media.

Comprendiamo il disorientamento del lettore in questo tourbillon di numeri, ma il diavolo si nasconde nei dettagli e pertanto vanno messi a nudo con certosina pazienza. Non c’è un cent in più anzi, è elevato il rischio che si perda qualcosa per strada.

Quando si deve affrontare un lungo viaggio – e tale è il tentativo di riportare il PIL dell’Italia ai livelli ante Covid o, meglio ancora, ante 2009 – ciò che conta non è il carburante che saremmo comunque stati in grado di comprare, ma la disponibilità aggiuntiva che riusciamo ad ottenere. Maggiore è quest’ultima, più vicini saremo all’obiettivo, fermo tutto il resto. È quello il vero e solo stimolo fornito all’economia. Ecco perché i 196 miliardi del RRF, a cui si sommano altri 14 miliardi di strumenti collegati al bilancio pluriennale 2021-2027, ai fini dello stimolo alla crescita rilevano solo per 143 miliardi (69 di sussidi del RRF, 14 di altri strumenti e 60 di prestiti). Anche i 20 miliardi del FSC (a cui si aggiungono i fondi strutturali europei), destinati dal 2003 al finanziamento di progetti strategici, sia di carattere infrastrutturale sia di carattere immateriale (per l’80% al sud), sono una semplice anticipazione di fondi già previsti, poiché la precedente programmazione 2014-2020 già prevedeva circa 55 miliardi.

Tutto questo spiegamento di forze dovrebbe produrre il 3% di Pil aggiuntivo nell’anno finale del piano (2026) rispetto allo scenario tendenziale di finanza pubblica. Circa 50 miliardi. Peccato che nel 2020 si siano letteralmente volatilizzati circa 170 miliardi di PIL e speriamo che siano solo quelli, considerata la prospettiva di crescita modesta del 2021. Niente male per essere un Piano per la Ripresa.

Ma queste prospettive devono ancor confrontarsi con la tagliola degli effetti recessivi del Patto di Stabilità e Crescita. Pochi ricordano che l’Italia è tuttora a rischio di “deviazione significativa” e di violazione della regola del debito e che le procedure del Patto di Stabilità non sono sospese: infatti la comunicazione della Commissione dello scorso 20 marzo con cui è stata attivata la clausola di salvaguardia (general escape clause) mantiene attivo il Patto di Stabilità, tanto è vero che la Commissione lo scorso 20 maggio ha redatto un Rapporto secondo l’articolo 126(3) del Tfeu concludendo che la regola dell’obiettivo di medio termine del deficit non è soddisfatta e che non sussistono sufficienti evidenze per dichiararci inadempienti rispetto alla regola del debito.

Quali saranno gli effetti recessivi di un debito/Pil che dovrà rientrare dal 158% al 133% entro il 2031 a colpi di avanzi primari?

Infine, ricordiamo che il Governo ha pensato bene di gonfiare il PNRR con investimenti per 209 miliardi, rispetto ai 196 finanziati dal RRF, poiché “il confronto con la Commissione europea relativo alla loro piena ammissibilità potrebbe determinare una riduzione dell’ammontare di risorse autorizzato”. Le linee guida pubblicate dalla Commissione il 17 settembre sono infatti un autentico percorso ad ostacoli disseminato di elementi di valutazione discrezionale che consegnano un potere enorme a chi valuterà i progetti. I burocrati di Bruxelles hanno indicato perfino il numero di pagine che dovranno avere gli elaborati.

Il negoziato sarà durissimo ed i numeri di questi giorni sono tuttora a rischio. Di tagli o di ricatto.

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