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Difesa

Leonardo e non solo. Perché sono eccessivi gli strepitii contro i tagli all’industria della Difesa. Il commento di Arpino

Il commento di Mario Arpino, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa

Il “documento programmatico pluriennale per la Difesa” 2018-2020, predisposto dal ministero con l’assistenza di Bilandife (Ufficio Centrale del Bilancio e Affari Finanziari) sui dati presentati dallo stato Maggiore della Difesa (che a sua volta aveva già elaborato le proposte degli Stati Maggiori di Forza Armata e – per gli aspetti di competenza – anche dell’Arma), è stato come al solito assemblato e chiosato dagli Uffici parlamentari e presentato a fine ottobre alle Camere.

Ammirevole il non facile lavoro di analisi operato dalla stampa e dalle agenzie specializzate, meno edificante la superficialità con cui altri organi, meno competenti ma più clamorosamente sonori, con alti lamenti hanno gridato allo scandalo. Frasi e parole come “la Difesa bancomat del Governo”, “tagli indiscriminati”, “capacità operativa compromessa”, “imminente perdita di funzioni vitali” si sono subito palleggiate tra l’inchiostro della carta stampata e la facile compiacenza della rete. Intendiamoci, non che tutto ciò non sia vero.

I tagli ci sono stati e ci saranno ancora, è dalla prima ristrutturazione del dopoguerra, quella del 1975 (molte altre ne sono seguite), che la Difesa è il comparto preferito sul quale esercitarsi allo sport dei tagli. Pochi protestano, e quindi è più agevole che altrove “reperire” risorse.

Primo, perché larga parte dell’opinione pubblica mostra disinteresse, o addirittura ci gode. Secondo perché la Difesa è disciplinata, e quando glie lo ordinano (capita sempre più spesso) le riforme le fa davvero.

Proprio per questo bisogna andarci piano, sia con gli ordini, sia con le proteste incompetenti. In entrambi i casi occorre conoscere il linguaggio, e sopra tutto avere dimestichezza con i meccanismi complessi che, destreggiandosi tra esigenze procedurali nazionali e Nato (che viaggiano su criteri diversi), rischiano di creare in un osservatore occasionale un buon grado di confusione. Specie nel settore del rinnovamento ed ammodernamento, dove lo sviluppo dei programmi, dalla prima formulazione dell’esigenza, alla sua trasformazione in requisito, alla stesura delle specifiche tecniche ecc…, fino alla realizzazione dei primi prototipi ed alla loro sperimentazione possono intercorrere anche una quindicina d’anni, con costi elevatissimi. Che, in questa fase, si possono “tagliare” solo a discapito di capacità operativa e dello stato dell’arte della tecnologia. Anche dopo, quando si passa alla fase di produzione (esempio, oggi, l’F-35) non si può “tagliare” (come, affrettatamente ed improvvidamente è stato già fatto, inficiando la redditività del programma e delle relative infrastrutture), ma si può solo “rimodulare” (che è ben diverso dal “tagliare”), spalmando i costi su un periodo più lungo.

È solo un esempio, che tuttavia calza perfettamente con i “tagli” attribuiti al ministro Trenta. Si tratta semplicemente di rimodulazioni, e lei, bontà sua, ha anche cercato di spiegarlo. Ma gli orecchianti non hanno prestato attenzione, o hanno finto di non capire. Qualche altra riflessione? Anche la rimodulazione non è indolore, e può indurre altri costi, magari nel prolungamento dell’esercizio di mezzi obsoleti. Ma, se l’esigenza di recupero fondi non è solo meramente elettorale, è il minore dei mali.

Di tagli veri, a quello che si è visto, ce n’è uno solo: il Pentagono della Difesa. L’idea del ministro Pinotti non era cattiva, anzi. Era già stata intravista alla fine degli anni ’90, quando si erano resi disponibili i quattro corpi di fabbrica dell’Alitalia, alla Magliana. Il Capo di SMD di allora ed il Segretario Generale avevano già preso contatto per l’acquisto, ma poi la cosa non ha avuto seguito. Il problema non era nei fondi, allora disponibili, ma nella resistenza opposta dalle tre forze armate ad alienare pezzi di storia come i Palazzi di via XX Settembre, del lungotevere e di viale Università. Il taglio del ministro Trenta, in questo caso quasi virtuale, è stato su qualcosa che, con buona probabilità, difficilmente si sarebbe realizzato.

In buona sostanza, ogni decurtazione su un budget già ridotto all’osso (specie nella funzione Difesa) è dolorosa. Tuttavia in questo caso, su un bilancio di globale di 21 miliardi (cui si aggiungono quasi tre miliardi del Mise) uno slittamento in avanti di 500 milioni (di cui solo 370 inciderebbero su veri programmi di ammodernamento) non sembrerebbero essere un’irrimediabile tragedia. Anzi, si potrebbe dire che, visti i turbamenti di natura ideologico-elettorale che agitano e dividono le forze politiche, poteva accadere molto di peggio.

Anche l’Industria, almeno per questa volta, non dovrebbe stracciarsi troppo le vesti, sapendo che gli slittamenti sono qualcosa di connaturato alla programmazione scorrevole, e c’è da immaginare che di questa evenienza sarà già stato tenuto conto (a meno di cattiva gestione) nella programmazione aziendale. Ciò per cui Difesa ed Industria per la Difesa dovrebbero invece strenuamente combattere all’unisono è l’allungamento (magari puntando al raddoppio) dei termini di certezza del finanziamento. Almeno, tra i grandi programmi, per quelli più lunghi, costosi ed avanzati.

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