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Vi racconto come è finito il Consiglio federale della Lega

La nota di Paola Sacchi.

 

Completo blu, alle telecamere offre sintetiche parole: “Ascolto tutti e decido (stretto sorriso, ndr)”. Non aggiunge enfaticamente, Matteo Salvini, “io”, parola che inappropriatamente gli verrà subito attribuita sul web. La cosiddetta resa dei conti, così drammatizzata ad arte da certo mainstream un po’ digiuno di cose di Lega di ieri e di oggi, finisce, come era prevedibile, così. Con il suo ministro dello Sviluppo economico, potente leghista da sempre, Giancarlo Giorgetti, che gli rinnova la fiducia, insieme con tutto il Consiglio federale, massimo organo leghista.  E “Si scusa, anche se le differenze restano” (titolo conclusivo dell’Agenzia giornalistica Italia).

Si invertono i ruoli di colpo, il Bud Spencer nei panni di Salvini (della metafora cinematografica consegnata dallo stesso Giorgetti al nuovo libro di Bruno Vespa Perché Mussolini rovinò l’Italia – e Draghi la sta risanando, Mondadori) batte Meryl Streep. Attrice non protagonista, stesso ruolo da non protagonista, consegnato da Giorgetti per Salvini a Vespa, di Il cacciatore di Michael Cimino, con uno spettacolare Bob De Niro che, star di Hollywood dem per star di Hollywood dem, almeno non si troverà, accanto a Richard Gere, a testimoniare al processo di Palermo, contro il leader leghista accusato addirittura di “sequestro di persona” nel suo ruolo da ministro dell’Interno.

“Il cacciatore”, più che a Kramer contro Kramer, “di cui non ricordo una battuta” (tweet dell’economista Claudio Borghi, deputato Lega, Salvini premier, ex presidente commissione Bilancio Montecitorio), rimanda piuttosto a scene realistiche, un po’ più brutali di quelle del pur grande Spencer. Salvini, il cacciatore di voti, come è stato accusato? Ma, come dicono pragmaticamente nella Lega esponenti della classe dirigente degli amministratori del Nord, laureati, quelli elogiati, a singhiozzo, a seconda delle convenienze, dalla stessa sinistra, cacciatore di voti è il leader, “come il manager di una grande azienda”.

Salvini, l’ex ragazzo di Via Bellerio, che fece presa anche tra i giovani bene di Via della Spiga, a Milano, cresciuto con Umberto Bossi, della serie: “Non c’è sera che un uomo della Lega non parli a un nostro comizio, perché noi siamo gente del territorio. Una grande forza di popolo”, vince la sfida-non sfida con Giorgetti. Nella Lega c’erano state altre rese dei conti, ma vere, tipo Roberto Maroni che le perse, anche con vasi tirati dai militanti, schivati miracolosamente, perché non voleva uscire dal governo Berlusconi ’94, con Bossi fino al 2012, fino a quando il  fondatore, “padre padrone” (fatto, non accezione negativa) dominò la scena di Via Bellerio.

È vero che la Lega, come disse Maroni, è “leninista” nella struttura, ma certamente non nei suoi contenuti, perché movimento-partito da sempre anti-tasse e per lo sviluppo economico. Salvini non a caso rivendica un ruolo in Europa anti-tasse, di cui è, invece, fautrice, ricorda, la sinistra del “Pse alleato del Ppe” e cerca la via di una destra “conservatrice e liberale”. Per la sfida di un nuovo gruppo, che raccolga il meglio del Ppe, dei Conservatori, di Identità e democrazia, non più Afd, gruppo estremista tedesco, usa queste parole più che il termine “sovranista”. Ed è un fatto che bossiani storici ti dicano: “Attraverso la Lega, interclassista, la sinistra vorrebbe scardinare il centrodestra, perché il perno al momento non può essere Fratelli d’Italia ancora troppo statalisti, non liberali, ma noi non possiamo fare a meno né di Matteo, gran comunicatore, vero frontman che ci ha salvato da un precipizio al 4 per cento, né di Giancarlo, fine supporto, leghista nell’anima, che non si capisce bene ora cosa gli sia accaduto, perché è parso più un Giorgetti in vesti draghiane, governative, anche se a noi Draghi andrebbe bene pure come presidente della Repubblica”.

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