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Javier Milei

Vi racconto l’estremismo distratto di Vargas Llosa sul Perù

Che cosa dice e non dice il Nobel Vargas Llosa. L’approfondimento di Livio Zanotti

 

Accade con le personalità grandi e controverse, che non sia facile parlarne. Nel suo caso, non per l’abiura delle giovanili simpatie rivoluzionarie, rinnegate ormai da quasi mezzo secolo in favore d’un liberalismo d’incerti principi. Se ancora molti non gliela perdonano, come se cambiare opinione politica fosse un reato, non è lui a doverne rispondere. Neppure per il Nobel, che altri gli invidiano pur celebrando i non meno grandi che l’hanno rifiutato con sdegno o notoriamente — strameritandolo — ne sono stati esclusi per pregiudizio. Personalmente, gli sono inoltre grato delle ore e dei giorni trascorsi con il cuore in gola sul tappeto volante dei suoi indimenticabili romanzi, con l’animo angosciato dalle vigliacche violenze subite dai cadetti militari de “La Città e i Cani” e dallo sconforto (oggi attuale più che mai) di “Conversazione nella Cattedrale”: in quale momento si è perduto il Perú?

Domande e metafore che come per ogni narratore foss’anche sconosciuto ma vero (e Vargas Llosa è stato ben accolto nella notorietà fin dal primo romanzo), assumono significato universale. Al pari della gioiosa eccitazione suscitata dal sottile erotismo de “La zia Giulia e il giovin scrittore” e non meno dall’ ironia di “Pantaleone e le visitatrici”. Indimenticabili i brividi suscitati da delitti, sadismi e vendette di un dittatore centroamericano, posti in scena con i dettagli di un verismo da cronaca all’ultimo sangue ne “La festa del Chivo”. La dittatura, massima umiliazione delle libertà e della dignità umane, evocata per denunciarne l’intima malignità. Lo ricordo infine cortese e disponibile, empatico, in una lunga telefonata da Roma a Londra per concordare un’intervista a Barcellona (poi saltata per ragioni di forza maggiore) sui campionati mondiali di calcio del 1982, in Spagna. Da buon sudamericano, di futbol ne sa non meno che di letteratura. E ne scrive da par suo.

Le difficoltà a parlarne scaturiscono oggi dall’insostenibile leggerezza con cui Vargas Llosa interviene a gamba tesa sul prossimo ballottaggio elettorale in Perù. Sollecitando appoggi in favore di Keiko Fujimori, figlia dell’ex capo di stato Alberto, in carcere per delitti gravissimi e infamanti (eccidi, traffico d’armi, corruzione) commessi nel corso delle sue presidenze (1990-2000). Lei stessa, incriminata per corruzione e con sulla testa il rischio di una lunga detenzione (la pena massima prevede 30 anni), annuncia che se eletta il primo atto della sua presidenza sarà concedere l’indulto al padre. Tuttavia, su El Pais (18.04.2021), lo scrittore afferma di temere assai di più l’altro candidato, Pedro Castillo, un ambiguo populista con un piede nel rivendicazionismo sociale e l’altro nel conservatorismo incivile. A parere dello scrittore, la fedina penale immacolata non impedirebbe al “maestro di provincia” — come definisce Castillo, maestro e sindacalista dei docenti —, di diventare un altro Chavez, quindi un altro Maduro, che trascinerebbe il Perù nel medesimo abisso del Venezuela.

Il Perú è un meraviglioso paese di antica cultura, testimoniata da un’archeologia per dimensione paragonabile in Occidente solo a quelle messicana e della Roma dei Cesari e dei Papi; una cultura vivissima, gustosa e fumante ancor oggi nella sua cucina, lussuosa per varietà e sfumature di sapori. Il sapere politico riassunto ed aggiornato nel Novecento, le istituzioni nazionali, sono stati però saccheggiati e semidistrutti negli ultimi decenni da sanguinose violenze e diffusa corruzione dei gruppi dirigenti. Il Covid è solo l’ultima delle molte tragedie sfociate in fosse comuni e cimiteri. Lo sviluppo industriale è minimo rispetto alle enormi risorse naturali. Scarsamente abitato (35milioni di residenti), il milione e 385mila km2 del territorio (oltre 4 volte quello italiano), conserva una biodiversità che va dalle fredde coste del Pacifico al torrido ventre dell’Amazzonia, scavalcando i più impervi picchi andini. Sotto ci sono riserve imponenti d’acqua, oro, piombo, argento, petrolio, gas, carbone, zinco…

Conosciamo la voracità dell’economia quantitativa, tutta tonnellate e milioni di dollari, tanto quanto le frequenti debolezze dei governi nel frenarne la tendenza agli eccessi. Basta vedere quanti ne finiscono nei tribunali. A priori, non sembra dunque irragionevole l’intenzione del candidato Castillo di difendere biodiversità, ambiente ed erario pubblico, promettendo una razionalizzazione delle attività estrattive. Per mezzo di una ricontrattazione delle concessioni che rovesci gli attuali criteri di ripartizione dei profitti. Il 70 per cento finora riservato alle grandi compagnie transnazionali dovrebbe passare allo stato, che lascerebbe loro il restante 30 per cento. Ricapitalizzare il mercato interno per favorirne lo sviluppo è l’obiettivo dichiarato. Sarebbe più che lecito chiedere a Castillo garanzie di trasparenza e certezze giuridiche nei processi di revisione che investiranno anche norme costituzionali, prima di dannarlo all’inferno.

Spaventato dai sondaggi che vedono Keiko 10 punti dietro Castillo e dalla sua minaccia di non escludere la nazionalizzazione delle imprese che rifiutino di rivedere i contratti, cioè di rinunciare alla maggior parte dei guadagni, il romanziere peruviano preferisce sia pur a malincuore rivolgersi invece alla figlia del dittatore -così lo chiama- che 30 anni fa lo sconfisse alle urne. Forse la vede come una scelta in cui è patente il suo disinteresse personale, quindi come un gesto di generosità. Anzi sarebbe lo sforzo di dimenticare quell’offesa degli elettori peruviani che da allora l’ha portato a risiedere definitivamente tra Madrid (ha acquisito anche la cittadinanza spagnola) e Londra. A Keiko che da anni ormai è fervida praticante dell’autoritarismo asiatico del padre in Parlamento e nelle piazze, chiede di confortarlo nell’idea che nonostante tutto rappresenti il “male minore”. Garantendo (non si sa come e a chi…) rispetto all’autorità giudiziaria che la sta processando e nell’ansia di modernizzare il paese che la possiede, non si faccia venire in testa l’idea d’un colpo di stato.

Uomo franco e passionale, Vargas Llosa, poeta dell’etica eroica, ha chiamato ripetutamente Keiko Fujimori “figlia di un dittatore assassino e ladrone, giudicato e condannato a 25 anni di reclusione da tribunali civili, nell’ assoluto rispetto delle norme giuridiche vigenti”. Non può non sconcertare che ora la invochi in quanto presunto “male minore”, malgrado l’incriminazione per corruzione e i sospetti anche peggiori che l’accompagnano. Semplicemente perché il suo competitore elettorale annuncia una politica con tratti ecologisti e nazional-statalisti (ed altri apertamente di cieca e bieca conservazione). Il tutto in un contesto specifico e mondiale di massima preoccupazione causata dal degrado ambientale e da una concentrazione oligopolistica della proprietà privata e dei sistemi di produzione, nel mezzo di una crisi economico-sociale mai vista prima in tempi di pace. Di un giudizio sereno e coerente non s’intravvede neppure l’ombra.

Addentrandosi nell’agitata penombra dei sentimenti umani, il grande scrittore peruviano ne aveva per lo più evitato i frequenti inganni affidandosi a uno stile narrativo polifonico, in cui i diversi punti di vista avevano ciascuno la propria voce. Come comprendere l’esplicita rigidità ideologica che l’anno scorso l’ha indotto a sottoscrivere un documento della Fondazione Internazionale per la Libertà (insieme a non poche altre persone -anche italiane- più o meno note e autorevoli), in cui criticando il lock-down con cui si tenta di recintare il Covid viene respinto “il falso dilemma secondo cui queste circostanze (della pandemia, ndr) obbligano a scegliere tra l’autoritarismo e l’insicurezza, tra l’Orco filantropico e la morte”. Persino di fronte alle stragi che va compiendo il Covid, l’Orco non è il virus, bensì lo stato in quanto collettività organizzata. Fonte primaria della norma comune, è il lupo che si traveste da nonna per meglio divorare l’innocente Cappuccetto Rosso.

Dunque: da Biden a Draghi, a Merkel, a Macron… tutti aspiranti tiranni, se non già tali in quanto vertici dell’oppressiva piramide statale? Insorge il sospetto di una sindrome che la relativa fragilità di alcune istituzioni latinoamericane rende meno paradossale e più facile da spendere nella confusione mondiale degli stereotipi politico-ideologici. Vargas Llosa denuncia nuovamente un pericolo comunista che sembrerebbe abbagliarlo, inducendolo a vedere molto più contagiosi del Covid (e dell’autoritarismo cospirativo e criminogeno dei Fujimori) i boccheggianti regimi di Cuba, Venezuela, Nicaragua e Corea del Nord. Nascondendogli del tutto, in cambio, nientemeno che la Cina, il più ibrido e degli unicorni ideologici della nostra epoca. Dimentica infatti di enumerarla tra gli Orchi in agguato, sempre che non l’abbia rubricata in chissà quale universo geo-ideologico. Ma più probabilmente perché  il romanziere si lascia talvolta attrarre più dalle suggestioni immaginifiche che da vere e proprie analisi politiche.

ildiavolononmuoremai.it

 

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