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Usa

Cosa non va nella politica Usa

Il corsivo di Teo Dalavecuras.

 

Uno degli ultimi arrivati nel mondo affollato dei giornali online (degli ultimi ma non dei meno ambiziosi), Semafor, il 26 dicembre ha pubblicato un’intervista con il senatore Joe Manchin che si può solo definire lapidaria.

Come è noto, Manchin è un esponente di primissimo piano del Partito Democratico, si autodefinisce “centrista, moderato e conservatore” ma, per il suo partito, più di una volta ha fatto la differenza tra la maggioranza e la minoranza in Senato. Alla domanda su quale vuoto lascino i due senatori che terminano in questi giorni il loro mandato, il repubblicano Richard Shelby e il democratico Pat Leahy, risponde: “un vuoto che nessuno è in grado di riempire. Erano due uomini di stato di primo piano cresciuti quando il Senato funzionava, quando collegialità e buona educazione erano le regole del gioco. E gli earmarks (la destinazione espressa e specifica degli stanziamenti deliberati ndr) erano la colla che ci teneva insieme”.

Alla seconda domanda, se Leahy e Shelby rappresentino i rispettivi partiti per come sono oggi la risposta è ancora più lapidaria: “No, per niente”. Ma poi Manchin spiega: “Rappresentano il Grand Old Party e il Partito Democratico centrista che di base si preoccupavano dei diritti della gente e dei diritti dei lavoratori. Oggi persone come loro sono delle rarità, perché è diventato tutto così tribale e distante dai valori di fondo che una volta i partiti condividevano e rappresentavano. Oggi non funziona, di base si tratta solo di come puoi attaccare o accusare qualcun altro”.

E prosegue: “Quanto a Leahy e Shelby posso solo ringraziarli, entrambi, perché a entrambi potevo rivolgermi e se la mia richiesta era motivata e ragionevole non guardavano al repubblicano piuttosto che al democratico o comunque al politico, ma al collega che vuole aiutare la sua gente: al collega che conosce le necessità della gente meglio dei burocrati”. Come dire, in poche semplici parole, che la democrazia come è stata praticata sino a qualche tempo fa nella patria della democrazia moderna ha smesso di funzionare.

Nel frattempo, l’elezione inaspettata del repubblicano George Santos, uno sconosciuto figlio di immigrati latinoamericani poco più che trentenne, nella circoscrizione tradizionalmente liberal della contea di Nassau (Long Island) ha scatenato un vespaio. Probabilmente l’élite locale non assegnava nessuna probabilità alla vittoria di questo parvenu, sicché solo “passata la festa” (e a Santos tutt’altro che gabbato ma, al contrario, votato da una confortevole maggioranza), il New York Times ha scoperto, con la proverbiale approfondita inchiesta, che l’autobiografia del neoeletto era infarcita di sfrontate millanterie:  precedenti professionali da Goldman Sachs e Citybank dove peraltro non era mai stato visto, inesistente diploma universitario della New York University, e poi iniziative imprenditoriali che avrebbero finanziato la sua campagna elettorale avvolte in una nuvola di opacità e inverosimiglianza.

Subito dopo le rivelazioni del Nyt, come da copione è scesa in campo la Procura di Nassau nella persona della repubblicana Anne Donnelly che ha dichiarato: “Nessuno è al di sopra della legge, e se è stato commesso un reato nella nostra contea lo perseguiremo”, non senza avere premesso che “gli abitanti di Nassau e delle altre zone della terza circoscrizione devono poter eleggere un rappresentante onesto e responsabile al Congresso”.

Di là di queste sacrosante ovvietà, mi pare piuttosto di un certo interesse la reazione dello stesso Santos alla tempesta di accuse che lo ha investito (e che, come si è accennato, almeno in buona parte non ha contestato): ha chiarito che non intende dimettersi perché… non è “un delinquente”. Come dire che la montagna di panzane di cui ha infarcito la propria autobiografica rientrano in qualcosa che anche se non è bello rientra comunque nella sfera del tollerabile: dolus bonus, avrebbero detto i romani e il buon Santos è pur sempre latino-americano..

È verosimile che la partita finisca per giocarsi e decidersi ben sopra la testa del neoeletto. Tuttavia, il fatto che un candidato con queste credenziali (e quindi, verosimilmente, con uno “stile” del tutto estraneo al tradizionale elettorato di quelle parti degli Stati Uniti) si sia affermato senza colpo ferire potrebbe forse suggerire utili riflessioni.

Personalmente – anche se si parla di contesti e tempi sideralmente lontani tra loro (almeno in apparenza), quanto accade ormai da parecchi anni in America mi ricorda una famosa opinione di Hanna Arendt sul motivo per il quale della Germania degli anni Venti del Novecento anche numerosi esponenti giovani e brillanti del ceto professionale e accademico si erano lasciati sedurre dalla rozza retorica hitleriana: perché erano stanchi e disgustati dalla falsa ma incontrastata retorica della élite allora dominante.

Un esempio: a Trump, che è ormai politicamente bruciato per ben altre ragioni, l’informazione progressista ha dedicato innumerevoli breaking news e articoli sul tema delle sue dichiarazioni fiscali, ma mi piacerebbe sapere quanti tra gli abituali utilizzatori di queste fonti (categoria cui per scarsità di fonti alternative anch’io appartengo) sanno che nessuna norma obbligava Trump a esibire queste dichiarazioni: solo con sei anni di complicati cavilli e qualche trucco i democratici son riusciti a ottenere il risultato, oltretutto da una Corte Suprema a maggioranza conservatrice. Un secondo esempio potrebbe essere quello di Hunter Biden, figlio del Presidente in carica, ma non è il caso di farla troppo lunga soprattutto all’inizio di un nuovo anno.

Il fatto è molto semplice: quos vult perdere Deus prius amentat (o qualcosa di simile). L’élite dominante dell’Occidente è accecata dal controllo senza precedenti che è in grado di esercitare sui mezzi d’informazione (di massa e anche non di massa). Ma non sarei così sicuro che trasformare la guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina, oppure la guerra industriale con la Cina settore tecnologico, in altrettanti fronti dove si gioca il futuro della democrazia, sia la ricetta per salvarla la democrazia, ammesso e non concesso che questo slogan significhi qualcosa. Così come non ha salvato l’Europa il “metodo Jean Monnet” che consiste nel creare le premesse per l’Unione Europea con strumenti esclusivamente burocratici: metodo magnificato, a mio avviso un po’ incautamente, da Mario Draghi in un suo non lontano discorso.

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