skip to Main Content

Variante Virus

Vi racconto la guerra Usa-Cina anti Covid-19

La competizione tra Cina e Stati Uniti avvolge le dinamiche del mondo del Coronavirus e i suoi effetti sulle altre nazioni, Italia compresa. L'analisi di Alessandro Aresu pubblicata sul nuovo numero della rivista della Fondazione Craxi "Le Sfide"

 

La crisi del Coronavirus, con le sue enormi conseguenze economiche, sociali e politiche, ha caratterizzato l’inizio del 2020. Ha sicuramente presentato davanti a noi eventi di portata colossale, dalla chiusura di Wuhan al crollo del prezzo del petrolio, dal numero record di studenti che nel mondo seguono le lezioni da casa alle oltre 22 milioni di richieste di sussidio di disoccupazione negli Stati Uniti in un mese. Per non parlare dell’entità degli interventi delle Banche centrali, e in particolare della Federal Reserve. Tuttavia, anche in questo caso, per comprendere veramente le tendenze in atto bisogna sempre guardare l’attualità in senso critico. Soprattutto per non farsi sorprendere.

IL MITO DELLE “CATENE GLOBALI DEL VALORE”

Per esempio, è in voga affermare che la pandemia abbia scardinato le catene globali del valore, mettendo in discussione filiere e processi che sembravano in attaccabili. Appunto, “sembravano”, perché non erano stati studiati bene. Le stesse catene del valore erano uno dei “miti” della globalizzazione che venivano accettati senza essere studiati con attenzione, con senso storico e geopolitico. Nel volume più completo sulla storia della Grande Recessione, Adam Tooze si esprimeva in questi termini: «Nelle discussioni sul commercio internazionale è ormai comunemente accettato che non sono più le economie nazionali a contare. Ciò che guida il commercio globale non sono i rapporti tra le economie nazionali, ma le società multinazionali che coordinano “catene del valore” molto ampie».

Il punto è che quello che veniva “comunemente accettato” nelle discussioni sul commercio internazionale era evidentemente falso. Non era possibile pensare che le strutture della costruzione dei prodotti industriali, con tutto ciò che implicano in termini di influenza e obiettivi strategici, fossero gestiti semplicemente da multinazionali. Era puerile pensarlo. Nel mercato energetico, si muovono forse multinazionali disincarnate rispetto alle potenze di appartenenza? Se Elon Musk apre una fabbrica Tesla in Cina, si coordina semplicemente con le imprese del luogo, mentre il Partito Comunista Cinese non svolge nessun ruolo? E nelle dispute della World Trade Organization, agiscono solo società multinazionali, senza relazione coi governi di appartenenza? E se ogni cosa è ridotta a catene del valore autonome, che ricalcano le onde multinazionali dello sviluppo tecnologico, come spiegare le sanzioni? Come dare conto della corsa alla sicurezza nazionale e dell’elaborazione globale, tra botte e doni di Washington e Pechino, del sempre più fitto corpus normativo relativo allo scrutinio e al monitoraggio degli investimenti esteri? Allora cerchiamo di capire le cose con chiarezza: il concetto di “catena globale del valore” sconta oggi una pesante crisi di rigetto perché ha restituito una dimensione parziale e lacunosa della realtà. Per cui si individua una comoda, ancorché stupida via d’uscita, nei gesti, nelle parole, nei tweet di Donal Trump.

Il punto è che la struttura delle catene non è fissata in termini deterministici, in un grafico che ne stabilisce la “convenienza”. Questa struttura può doversi adattare alle dispute commerciali o alle pressioni politiche, con effetti imprevedibili. Dobbiamo vedere effetti politici e sociali nell’organizzazione delle catene, nella loro stretta e nel loro allentamento. Non c’è un processo che si guida da solo. Chi lo pensa viene guidato dagli altri. Oppure, viene direttamente imprigionato, in un ruolo giocoforza subordinato.

Più in generale, la pandemia si è inserita in alcune dinamiche già presenti sulla scena internazionale. La principale è la conflittualità tra Stati Uniti e Cina. Come dettagliato anche su questa rivista, Stati Uniti e Cina sono potenze del capitalismo politico. Sebbene differiscano in quanto regimi politici, in entrambi i sistemi avviene un accoppiamento tra economia e politica, attraverso diversi strumenti: l’uso politico del commercio, della finanza e della tecnologia, la partecipazione statale nelle imprese e più in generale l’impasto tra apparati burocratici e aziende, le sanzioni, le barriere agli investimenti esteri.

Questi strumenti sono parte integrante del conflitto tra le due potenze, nel caso di Pechino attraverso il ruolo organico e pervasivo della burocrazia del Partito Comunista Cinese, nel caso di Washington attraverso il ruolo centrale, per la sua proiezione mondiale, per gli investimenti nonché per l’occupazione, dell’apparato militare e delle burocrazie della sicurezza e dell’intelligence. La pandemia del Coronavirus non cambia queste dinamiche. Piuttosto, porta a una loro ulteriore accelerazione.

LA CINA STA VINCENDO?

Il 16 aprile 2020, The Economist ha posto la domanda con una sua copertina: la Cina sta vincendo (Is China Winning?). Perché questa domanda viene posta? Perché una crisi che ha avuto origine dalla Cina e che vedeva il sistema cinese in difficoltà a gennaio e a febbraio 2020 porta poi, appena due mesi dopo, alla domanda sulla vittoria del sistema cinese, a una crescente discussione sull’attrattività del sistema cinese? Anzitutto, per comprendere questo passaggio, bisogna avere chiaro che la pandemia non è stata propriamente tale. Nel senso che ovviamente non ha colpito tutti allo stesso modo. Dal punto di vista sociale, certo: il fatto che calciatori o primi ministri siano stati contagiati non vuol dire nulla, chi è più ricco e ha più possibilità è stato sicuramente avvantaggiato rispetto a chi è partito da una posizione sociale più fragile. Inoltre, ed è l’aspetto che conta dal punto di vista dei rapporti di forza geopolitici, la pandemia non ha colpito i Paesi con la stessa cronologia visibile. Il paese del Dragone ne è stato l’epicentro nelle prime settimane, poi abbiamo visto il punto più critico spostarsi in Europa occidentale e poi, nel mese di aprile, negli Stati Uniti. Pertanto, la Cina ha affrontato la fase critica in un’ondata che è venuta prima delle altre potenze. In quel momento, ha colto l’importanza di prodotti come i dispositivi di protezione personale, le mascherine, i guanti, i preziosissimi ventilatori polmonari, producendoli poi non solo per sé ma anche per gli altri Paesi, che in diversi casi non si sono preparati adeguatamente, con alcune eccezioni (un caso è la Germania). La Cina ha quindi agito in senso economico (vendere quei prodotti) e in senso strategico (vendere o regalare i prodotti, ma con l’obiettivo di acquisire influenza e aumentare la propria reputazione). Si è evoluta, e si sta ancora evolvendo, una “diplomazia degli aiuti”.

Anche l’Italia si è ritrovata in questo processo, che è giunto a circa un anno dalla firma del memorandum di adesione alla Belt and Road Initiative (BRI, o nuove vie della Seta), avvenuto durante la tappa romana del viaggio europeo del presidente cinese e segretario generale del Partito Comunista, Xi Jinping, che si è svolto tra il 21 e il 26 marzo 2019. In quell’occasione, l’Italia e la Repubblica Popolare hanno siglato 29 intese – 19 istituzionali e 10 commerciali – per un valore totale di 2,5 miliardi di euro. Un importo non significativo, se paragonato ad accordi commerciali similare firmati con le altre potenze manifatturiere europee, Germania e Francia.

Dal punto di vista cinese, l’adesione del primo Paese del G7 al progetto ne ha rafforzato la forza, soprattutto in termini simbolici e strategici. Il Governo italiano dell’epoca ha invece teso a sottolineare l’importanza economica di questo processo, volto essenzialmente a recuperare le posizioni nelle esportazioni verso la Cina rispetto ad altri Paesi, come la Francia e la Germania. Questa narrazione economica – che anche per la forte opposizione di Washington, espressa anche attraverso un tweet del National Security Council, è stata la principale posizione italiana – non ha portato particolari dividendi nel corso del 2019. Nel 2020, la gravità della situazione economica non consentirà, ovviamente, un paragone adeguato. Allo stesso tempo, gli elementi strategici e simbolici sono tornati in primo piano, per esempio nel rapporto con la Cina all’interno della “diplomazia degli aiuti”.

Non dimentichiamo gli aspetti strutturali ai quali abbiamo fatto cenno all’inizio: tutto questo avviene in una profonda stagione di conflittualità tra gli Stati Uniti e la Cina, che è espressa in particolare dagli apparati preposti a Washington alla sicurezza nell’ambito del commercio e della tecnologia. Questa è la “storia” fondamentale dell’ultimo anno, e lambisce l’emergenza coronavirus.

Il 16 maggio 2019, il dipartimento del commercio degli Stati Uniti include Huawei e le sue imprese affiliate in una lista nera per “coinvolgimento in attività contrarie alla sicurezza nazionale o agli interessi di politica estera degli Stati Uniti”. Ogni fornitore della galassia Huawei che ha attività negli Stati Uniti, in ambito hardware e software, si trova ad affrontare le conseguenze di questo provvedimento. Nell’agosto 2019, altre quarantasei entità affiliate di Huawei, tra cui alcuni centri di ricerca presenti in vari paesi europei, tra cui l’Italia, sono aggiunte nella lista del dipartimento del commercio. Gli Stati Uniti aumentano la pressione sugli alleati europei nel corso dei mesi successivi. Prendiamo come esempio calzante il linguaggio del segretario di Stato Mike Pompeo, che così valuta le reti cinesi, rivolto agli italiani in una video-intervista con il quotidiano La Stampa: «Ogni informazione che viaggia nelle loro reti è a rischio. La rete è controllata dal Partito Comunista Cinese». Nel gennaio 2020, Mike Pompeo ha fatto sapere al governo britannico che, a suo avviso, la minaccia fondamentale del nostro tempo non è più il terrorismo, ma il Partito Comunista Cinese.

Nella lotta tra Stati Uniti e Cina, è importante lo schieramento dei paesi europei, a partire dalla Germania. È significativo che il ministro tedesco Peter Altmaier abbia difeso le scelte di avvalersi di tecnologia cinese paragonando il caso Huawei alla gravità della vicenda NSA, ancora sentita in Germania come elemento che ha fatto crollare la fiducia con gli Stati Uniti. È anche essenziale comprendere, come mostrato dallo schieramento della speaker della Camera Nancy Pelosi alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, che la conflittualità verso la Cina negli Stati Uniti non riguarda una sola parte politica, ma è pienamente condivisa. In questi termini, la “questione cinese” entrerà nella campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 2020. Secondo alcuni osservatori, Trump dovrebbe fare una campagna elettorale tutta incentrata sull’opposizione alla Cina per puntare a essere rieletto. È probabile che Joe Biden elabori una politica nei confronti della Cina che si dichiarerà “adulta”: ritenendo controproducente l’irruenza di Trump, individuerà uno “stile” diverso per il confronto con Pechino.

Le differenze sostanziali non saranno molte. In questo scenario, la pandemia ha visto un’escalation delle accuse reciproche tra Pechino e Washington. Il presidente Trump per molto tempo ha chiamato il Coronavirus “virus cinese” e ha criticato con forza l’Organizzazione Mondiale della Sanità, considerata prona alle richieste e alle esigenze di Pechino, fino a decidere una sospensione dei fondi in attesa di studiare meglio la risposta dell’organizzazione alla pandemia. Quando il numero di morti ufficiali negli Stati Uniti ha superato il numero di morti ufficiali in Cina, è successo l’inevitabile: è stata diffusa la notizia di un rapporto dell’intelligence degli Stati Uniti che, oltre a mettere in forte dubbio i numeri forniti dal governo cinese, ha criticato le varie fasi della risposta della Cina.

COSA SUCCEDERÀ IN FUTURO?

La Cina sta dunque vincendo? La stagione di crescita più sostenuta dell’economia cinese era già al tramonto. In un quarantennio di crescita, in ogni caso, la Cina ha fatto avanzamenti molto importanti. Le previsioni formulate negli anni passati da numerosi esperti sull’insostenibilità del debito locale cinese finora non hanno provocato alcun crollo complessivo. Il Partito Comunista Cinese si è adattato a nuove sfide e ha tenuto insieme il Paese con una forma sofisticata di capitalismo autoritario, ufficialmente denominata “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Ora, tuttavia, dovrà affrontare una situazione nuova, con sfide inedite. Non bisogna dimenticare che la Cina ha comunque pesanti elementi di fragilità, che riguardano in particolare la struttura demografica e i rapporti con i vicini: la reputazione cinese potrebbe essere peggiorata in alcuni Paesi asiatici per la gestione dell’epidemia. Inoltre, sul piano militare la Cina non è ancora in grado di impensierire gli Stati Uniti su numerosi fronti, anche se è cresciuta la conflittualità su alcune aree (penso per esempio alla nuova “corsa” geopolitica allo spazio).

Gli Stati Uniti hanno affrontato la prima fase dell’emergenza sulla difensiva, per i problemi sul piano interno, per alcuni elementi di disorganizzazione evidenti. Attenzione, perché la politica monetaria di Washington ha reagito prontamente. È un aspetto di primo piano. Non si vede, anche in questa crisi, un indebolimento sostanziale del ruolo del dollaro. Un punto essenziale, di cui occorre sempre tenere conto. Le prossime sfide vedranno accentuarsi la conflittualità tra le potenze del capitalismo politico e la loro competizione strategica sul continente europeo e negli altri fronti. Un elemento da considerare è la conflittualità crescente sulle istituzioni internazionali, sui loro fondi, ma anche sugli strumenti legali.

L’idea che la Cina debba pagare alcune “riparazioni” alla comunità nazionale non è avanzata negli Stati Uniti soltanto da complottisti, ma anche da giuristi, seppur schierati, come per esempio James Kraska del Naval War College. Non è un processo da sottovalutare, anche se difficilmente potrà avere approdi realistici. Un altro fronte da considerare è la partita del vaccino, che a livello reputazionale – oltre che concreto – vedrà impegnate le potenze.

In sintesi, la competizione tra Cina e Stati Uniti avvolge le dinamiche del mondo del Coronavirus e i suoi effetti sulle altre nazioni, Italia compresa.

 

Articolo pubblicato su leSfide – Non c’è futuro senza memoria’

Back To Top