Ha avuto le sue radici nel “connubio” di cui fu artefice Cavour nel 1852, quando – per mettere ai margini nel Parlamento subalpino sia la destra reazionaria e clericale, sia la sinistra democratica e repubblicana – invitò le forze politiche a convergere sul centro di cui era il leader. Storicamente, tuttavia, il vocabolo trasformismo entra nel linguaggio politico italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento.
In un discorso tenuto a Stradella alla vigilia delle prime elezioni a suffragio allargato (8 ottobre 1882), il capo della sinistra parlamentare Agostino Depretis giustificava così gli accordi stipulati con la destra moderata di Marco Minghetti: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”.
Ciononostante, il termine trasformismo divenne immediatamente sinonimo di mancanza di principi, di amoralità, di corruttela. Già nel gennaio 1883, in un articolo apparso sul periodico bolognese “Don Chisciotte”, Giosuè Carducci ne anticipava una condanna che sarà senza appello: “Bruttaì parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco de’ ladri, non essere più uomini e non essere più ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi nei quali le due immagini si perdono, e che invece di parlare ragionando sputano mal digerendo”.
In seguito la “brutta parola” fu utilizzata per designare addirittura un topos del carattere nazionale, vale a dite l’inclinazione -figlia dell’atavica arte di arrangiarsi italica- a non prendere troppo sul serio le fedi e le ideologie.
Il 9 marzo 1910 Pierre de Quirielle, firma autorevole del prestigioso “Journal de Débats”, scriveva: “L’Italia ha oggi quattro grandi glorie,di cui può andare giustamente orgogliosa: il poeta Gabriele D’Annunzio, l’inventore Guglielmo Marconi, il tenore Enrico Caruso e il trasformista Leopoldo Fregoli. E di questi quattro creatori, Fregoli, che incarna istantaneamente le personalità più diverse, è il più originale. La sua meravigliosa mobilità, al servizio di un’intelligenza vivissima, ci mostra una delle tante facce del genio di questo popolo latino”.
Nelle parole del critico teatrale francese si avvertiva l’eco dell’entusiasmo suscitato dal debutto di Fregoli (1867-1936) al teatro Olympia di Parigi. La sua fama allora era alle stelle, e in larga misura a lei si deve la fortuna e lo stesso slittamento semantico del termine trasformismo, ossia l’abitudine a cambiare casacca di partito con fulminea disinvoltura.
Saranno prima i futuristi e poi i fascisti a sfruttare la sua immagine come simbolo del cambiamento realizzato dal mussolinismo. Nel 1925 uno dei teorici del regime, Carlo Alberto Alemagna (alias generale Filareti), aveva dato alle stampe un saggio, “In margine del Fascismo”, che in realtà era un lugubre necrologio della democrazia. In un capitolo, dopo aver sottolineato la facilità con cui la folla cambia opinione ad ogni alito di vento, l’autore chiama questa tendenza “fregolismo” (o “girandolismo”), attribuendole la stessa prorompente energia positiva che sprigionava dal “più grande artista dei nostri tempi”.
Finisco qui, ma con un’avvertenza: ogni riferimento a fatti del tempo presente non è puramente casuale.