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Tunisia

Tutte le vere convulsioni del Pd di Zingaretti

Che cosa succederà nel Pd dopo le annunciate dimissioni del segretario Nicola Zingaretti? L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Non sono del tutto chiare le ragioni che hanno portato Nicola Zingaretti alle dimissioni. Almeno noi non le abbiamo capite. Nel lungo post, pubblicato su Facebook, dichiara di vergognarsi del fatto che nel partito “si parli solo di poltrone e primarie, quando in Italia sta esplodendo la terza ondata del Covid, c’è il problema del lavoro, degli investimenti e la necessità di ricostruire una speranza soprattutto per le nuove generazioni”. Non quindi un semplice dissenso, che nelle difficoltà della società italiana, sarebbe naturale. Ma la completa degenerazione di un forza politica che non ha più futuro. E pensare che uno degli elementi fondativi dei post-comunisti rimane sempre l’affermazione orgogliosa di una presunta “diversità”: oggi definitivamente sputtanata dall’intervento del segretario.

Chissà se nell’ormai lontano 1993 fossero questi i pensieri segreti di Mino Martinazzoli quando propose all’assemblea nazionale, che si tenne nel Palazzo dei congressi all’Eur, lo scioglimento del partito e la sua trasformazione nel Partito popolare italiano? Idea poco felice: di lì a qualche settimana sarebbe sceso in campo Silvio Berlusconi, assorbendo nella sua Forza Italia le schiere di centro e di destra della vecchia Dc, mentre la sinistra entrava definitivamente nel Pds, coronando un sogno che durava da anni.

Sarà questo l’obiettivo di Zingaretti o non si tratterà invece di un semplice tatticismo, rivolto a stanare e tacitare gli avversari, all’interno del proprio partito? Lo si vedrà, tra qualche giorno, quando si aprirà il dibattito nell’Assemblea nazionale. Che comunque vada a finire non potrà non interrogarsi su una doppia crisi: quella del partito e del suo alleato privilegiato. Quei 5 stelle, ormai “normalizzati”, come gli ungheresi dopo l’intervento dell’Armata rossa, dalla leadership di Giuseppe Conte. Ed in procinto, visto i sondaggi soprattutto ai danni dei dem, di lanciare la loro Opa sull’intera sinistra.

Che questi due problemi siano intrecciati è fin troppo evidente. Finora il Pd ha avuto un unico obiettivo: impedire il successo del centro destra guidato da Matteo Salvini. Per questo, alla fine del governo giallo verde, lo stesso Nicola Zingaretti, contravvenendo alle intese con la Lega, rifiutò l’ipotesi stessa di elezioni anticipate, per dar corso ad un cambio di maggioranza. Fu colpa di Matteo Renzi: si potrebbe argomentare. Vero. Ma chi era il segretario del partito? Fu travolto dal parere contrario dei maggiorenti. Può darsi. Ma questa non è altro che una delle tante debolezze dimostrate.

Che Giuseppe Conte non fosse in grado di sostenere il peso della nuova fase era evidente, fin dall’inizio. I meccanismi costituzionali, che regolano l’alternanza, sono posti proprio a presidio di una normalità, che quelle scelte contravvenivano in profondità. Non ci voleva molto a capire che non avrebbe funzionato. Poi Conte è stato anche sfortunato, costretto ad affrontare una situazione senza precedenti, non avendo quelle capacità che derivano da esperienze istituzionali consolidate. Basta guardare a Mario Draghi. Cosa che giustifica la successiva svolta di Matteo Renzi: prima king maker, poi killer.

Alla fine: situazione di stallo. E mancanza di una qualsiasi strategia alternativa. Il che spiega un po’ la disperazione di Nicola Zingaretti. E’ stato costretto a farsi carico, fino alla fine, dei problemi di 5 Stelle. Intestandosi la caccia ai cosiddetti “responsabili”. Un colpo al cuore. Poi la glorificazione dell’avvocato del popolo. L’incoronazione di un papa straniero, sulle suggestioni di Goffredo Bettini. Ed oggi il rischio concreto di trasformare il suo partito in un cespuglio dei 5 stelle, nel nuovo format voluto da Beppe Grillo.

Sarà possibile evitarlo? Per la verità sembra quanto mai difficile poter invertire il corso degli eventi. “Il centrodestra – ha scritto recentemente Paolo Mieli su il Corriere della sera – ha trovato la via per restare unito nonostante due partiti (Lega e FI) siano entrati in maggioranza, mentre uno (Fratelli d’Italia) è rimasto all’opposizione. E, almeno per il momento, l’alleanza regge”. Sul fronte opposto il centro sinistra vede accrescere, almeno nei sondaggi, il suo consenso. Ma il fronte è più articolato. Personalmente ho dubbi che l’eventuale egemonia dei 5 Stelle, sotto l’usbergo di Giuseppe Conte, possa favorire la partecipazione di Matteo Renzi o Carlo Calenda. Nel qual caso il centro destra sarebbe ancora maggioranza.

Comunque sia, l’alleanza a sinistra è obbligata, almeno in vista delle prossime scadenze elettorali, relative alle amministrative. Se non si presenterà unita, la sconfitta sarà pressoché inevitabile. Ed l’eventuale sconfitta nelle amministrative non potrà che rappresentare una forte ipoteca per tutte le successive scadenze, fino al giudizio di Dio delle politiche del 2023. Tutto questo spiega le ulteriori convulsioni. Si può, al tempo stesso, sostenere il maggioritario, a livello del territorio, ed il proporzionale a livello politico generale? Difficile pensarlo. Eppure per quel sistema elettorale, il Pd si era speso da tempo, rammaricandosi più volte per titubanze dei suoi alleati grillini.

Ed ecco allora l’idea di Zingaretti di intavolare con Matteo Salvini un nuovo discorso sull’eventualità di giungere, invece, ad un maggioritario per le politiche. Rovesciando, come un guanto, le precedenti posizioni. Apriti cielo. Alle prime indiscrezioni della stampa, la reazione dura delle varie correnti: dagli orfani di Matteo Renzi a Matteo Orfini. Un bailamme destinato, a favorire le dimissioni del segretario, ormai sull’orlo di una crisi di nervi. Dimissioni inimmaginabili in un altro momento. Oggi frutto del completo esaurirsi di una fase, vissuta senza troppo entusiasmo.

Una fase che va attentamente analizzata. Il sospetto è che il Pd sia giunto al termine di una lunga galoppata. In un mondo che cambia sempre più in fretta, quel popolo, ma soprattutto i suoi dirigenti, sono rimasti senza i riferimenti di un tempo. La loro stessa ideologia, troppo spesso, si è trasformata in quella falsa coscienza, che Marx attribuiva ai borghesi del suo tempo. Di fronte a questo grande vuoto, la “politique politicienne” ha assunto una dimensione debordante. Mettendo in ombra ogni discorso programmatico. Appannando i valori del bel tempo antico e facendo emergere tutta l’incapacità di fare i conti con le contraddizioni nuove di una modernità, tutta da interpretare.

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