Occhi puntati questo fine settimana su Buenos Aires, dove si celebrerà il più rovente summit G20 di sempre – più di quello del 2009 che vide le maggiori potenze economiche mondiali affrontare la più grave crisi finanziaria del dopoguerra. Oggi, in cima alle preoccupazioni dei leader politici, degli economisti e degli osservatori internazionali c’è lo scontro sino-americano sul commercio: una tenzone cui il resto del mondo assiste con inquietudine viste le ripercussioni che può avere sulla crescita economica globale.
L’allarme è stato lanciato la settimana scorsa dall’Oecd. Presentando le sue previsioni sulla crescita mondiale, l’organismo internazionale ha ammonito che la guerra commerciale in atto tra Cina e Usa potrebbe provocare una flessione della crescita globale dello 0,8% nel 2021. Una previsione che potrebbe addirittura aggravarsi alla luce dell’annunciato aumento dei dazi americani sulle merci cinesi dal 10 al 25% fissato per il 1 gennaio. Come ha spiegato il capo economista Oecd Laurence Boone, il “commercio è la più grande minaccia alle nostre previsioni economiche e la mancanza di dialogo” tra Cina e Usa “rappresenta una grave preoccupazione per noi”.
In questo scontro che vede contrapporsi l’agenda protezionista americana e la resistenza cinese, tutti gli altri attori si muovono nervosi ed impauriti. Anche Unione Europea, Giappone e Canada d’altro canto hanno conosciuto sulla loro pelle l’impatto della diatriba in corso, sotto la forma degli inattesi dazi su acciaio e allumino imposti dagli Usa all’inizio di quest’anno.
È per questo motivo che, al G20 di Buenos Aires, è fortemente a rischio anche la rituale dichiarazione finale, che i leader delle altre potenze vorrebbero concentrata sulle virtù dei mercati aperti e del multilateralismo. Dichiarazione che resta appesa fondamentalmente all’esito dell’evento più atteso del summit: il bilaterale tra il presidente americano e il suo collega cinese.
Il clima in cui si consumerà il faccia a faccia tra Donald Trump e Xi Jinping non è certo propizio. Gli Usa hanno appena ribadito le proprie accuse alla Cina inserendole nell’aggiornamento al primo rapporto, uscito a marzo per volontà dell’amministrazione Trump, sulle pratiche commerciali dell’impero di mezzo. Commentandolo, il ministro del commercio Robert Lighthizer non è andato certo per il sottile. “La Cina non ha fondamentalmente modificato le sue pratiche sleali, irragionevoli e distorsive del mercato”, ha tuonato il ministro martedì. Gli Usa attirano l’attenzione sui soliti punti: restrizione agli investimenti esteri, trasferimento forzato di tecnologia Usa alle aziende cinesi, sussidi di stato, distorsione della moneta. Sono le ragioni che hanno spinto l’America a varare tre round successivi di dazi che colpiscono l’export cinese negli Usa per un valore di 250 miliardi di dollari.
E potrebbe non essere finita qui. I falchi anti-cinesi dell’amministrazione Trump sono particolarmente attivi e vocali in questo periodo, e stanno facendo assumere alla sfida i toni di uno scontro apocalittico. Il mese scorso, il vice-presidente Mike Pence ha formulato un discorso che ha riecheggiato quello famoso di Churchill sulla cortina di ferro: il segnale più eloquente di come oggi gli Usa guardino alla Cina come ad una minaccia strategica esiziale che investe tutte le dimensioni del potere, e non solo quella del commercio. Al summit Apec della settimana scorsa – conclusosi senza una dichiarazione finale proprio a causa delle tensioni sull’asse Pechino-Washington – Pence ha addirittura ventilato la possibilità di “più che raddoppiare” gli attuali dazi contro la Cina.
In questo clima surriscaldato, le aspettative sull’esito del G20 sono necessariamente segnate da incertezza. In una nota di ricerca, gli economisti di UBS osservano come il summit rappresenti sì “un’opportunità per evitare un’escalation”, ma è da escludersi che Cina e Usa decidano di “ritirare i dazi già annunciati”. E se un alto funzionario UE coinvolto nella preparazione del vertice sostiene che il “successo del summit G20 sarà misurato dalla sua capacità di innescare una de-escalation delle attuali tensioni commerciali”, l’UE non sembra crederci. Numerose sono, d’altra parte, le divisioni tra le due sponde dell’Atlantico in questo momento, con gli Usa che preferiscono muoversi in modo unilaterale e l’Europa che indica la via del negoziato in sede WTO, vale a dire nell’ambito di quella Organizzazione Mondiale del Commercio che l’America ritiene incapace di affrontare i problemi sul fronte del commercio globale.
Tutto sembra appeso, dunque, al filo del dialogo che Trump e Xi riusciranno a intavolare al margine del summit. È la prima volta che i due leader si incontrano da quando il presidente Usa ha varato i suoi maxi-dazi. Nelle precedenti occasioni, non sono mancate né le attestazioni di stima né le adulazioni. Trump ha parlato addirittura di una “ottima chimica” col collega cinese. Potranno una pacca sulla spalla e qualche complimento invertire la rotta dell’attuale sfida all’ultima ritorsione?
Nell’ex Celeste Impero si dà mostra di ottimismo. La Cina, ha spiegato il vice ministro degli esteri Wang Chao, “spera che il meeting Xi-Trump vada liscio”. Anche Trump si mostra baldanzoso e ansioso di vedersi a tu per tu con Xi. Giovedì scorso ad esempio ha rilasciato dichiarazioni rassicuranti, che testimoniano se non altro della sua volontà di impegnarsi in un colloquio franco e approfondito. “Conosco ogni ingrediente. Conosco ogni statistica. Le conosco meglio di chiunque altro. E I miei istinti hanno sempre avuto ragione. E stiamo andando molto bene. E vi dirò che la Cina vuole davvero fare un accordo”.
Già, ma la Cina è disponibile ad accordarsi con gli Usa? Sulla carta, ne avrebbe tutta la convenienza. I segnali che giungono dalla sua economia parlano di un peggioramento della situazione, con una crescita che ha toccato il livello più debole dal 2009. Per uscire dall’angolo, Xi potrebbe proporre a Trump – in cambio del ritiro del minacciato aumento dei dazi dal 10 al 25% – uno di quei “deal” che tanto piacciono al presidente americano: un aumento dell’export Usa in Cina che serva a riequilibrare il disavanzo monstre che The Donald ha promesso sin dalla campagna elettorale del 2016 di combattere a testa bassa. E se la proposta precedente di Xi di aumentare il flusso di export di 70 miliardi è stata rigettata al mittente, oggi la posta potrebbe essere alzata a 200 miliardi, un dato che consentirebbe di dimezzare l’attuale gap commerciale tra le due potenze, che era di 375 miliardi nel 2017.
Colpi di scena, dunque, non possono essere esclusi. Ma nessun accordo raggiunto tra i due leader riuscirà ad oscurare la realtà di una competizione strategica che si fa di anno in anno più accesa. Come osserva Shi Yinhong, capo del Center for American Studies alla Renmin University di Pechino, già consigliere diplomatico del governo cinese: “anche se fossero in grado di raggiungere un piccolo accordo, i leader di Cina e Stati Uniti non possono raggiungere un accordo sui fondamentali”.