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Tunisia

Vi spiego il dossier Tunisia

Alle origini della crisi della Tunisia c'è anche lo spostamento dell'interesse degli Stati Uniti dall'Atlantico (e dal Mediterraneo) al Pacifico. Ecco perché. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Durante il lungo “regno” di Ben Ali (1987-2011), succeduto a Bourghiba, la Tunisia aveva conosciuto una fase di intenso sviluppo. Sotto la sua presidenza l’economia tunisina nel 2007 si era classificata al primo posto, in termini di competitività economica in Africa, secondo il World Economic Forum. Ma più in generale il suo tasso di crescita annua era risultato essere in testa alla classifica tra i Paesi del Nord Africa, attestandosi su una percentuale media superiore al 5 per cento all’anno.

Una sorta di piccolo miracolo che trovava la sua spiegazione nelle caratteristiche geopolitiche di quel periodo. A trainare la crescita erano stati soprattutto i rapporti con l’estero, che allora guardavano in modo prevalente se non esclusivo, ai Paesi europei e, seppure, in misura minore agli Stati Uniti e alle altre economie occidentali. Le partite correnti della bilancia dei pagamenti erano in leggero rosso, ma il deficit derivava soprattutto dalle importazioni di beni capitali, necessari per avviare il processo di industrializzazione, soprattutto in quei settori ad alta intensità di mano d’opera: industria alimentare e tessile, oltre che nell’estrazione dei fosfati di cui il Paese è particolarmente ricco. Al quinto posto tra i primi dodici Paesi produttori.

IL PERIODO D’ORO DEL MEDITERRANEO

In quegli anni il Mediterraneo aveva, per tutto l’Occidente, una sua centralità. Da quelle terre proveniva il petrolio necessario per garantire il fabbisogno energetico dei principali Paesi. Compresi gli Stati Uniti che, allora, erano importatori netti, non avendo ancora pienamente sviluppato le tecniche di produzione dello shale oil. Vale a dire il trattamento degli scisti bituminosi da cui estrarre petrolio. E dal cui sviluppo, negli anni più recenti, deriverà un rovesciamento della loro iniziale posizione, fino a trasformarli in uno dei principali esportatori di prodotti energetici: petrolio, gas e via dicendo.

Altra caratteristica era quella della complementarità. L’Europa e Stati Uniti mettevano a disposizione di quei Paesi le risorse finanziarie necessarie per sviluppare quelle industria locali capaci di produrre per il mercato interno ed, al tempo stesso, per le esportazioni, grazie ai più bassi costi della mano d’opera. Lo scambio, sempre un po’ “ineguale”, come allora si diceva, era tra prodotti agricoli, materie prime e manufatti poco sofisticati dal punto di vista tecnologico da un lato e prodotti industriali più evoluti – a partire dalle automobili – dall’altro. Comunque sia, la logica dell’accumulazione primitiva produceva i suoi effetti ed una distribuzione della ricchezza sempre più squilibrata tra le grandi masse popolari ed una ristretta borghesia autoctona. Con Ben Ali, ma soprattutto la sua famiglia, decisa ad ottenere la parte del leone.

DA DOVE ARRIVA LA CRISI DELLA TUNISIA

Da un punto di vista sociologico, all’arretratezza storica di un Paese uscito da poco dalla dominazione coloniale, si contrapponeva una corruzione devastante, in cui nuotavano, con i loro consumi opulenti, le principali oligarchie politiche. Le quali non facevano alcunché per nascondere o occultare il persistere di uno squilibrio sociale. Che comunque la forte crescita di quegli anni tendeva a rendere sopportabile, agli occhi del resto della popolazione. L’esistenza di un ascensore sociale, sebbene si muovesse a bassa velocità, era comunque motivo di conforto se non proprio di rassegnazione.

All’origine della crisi di quel modello furono elementi diversi. Alcuni di più lungo periodo, quale il crescente interesse americano per la prospettiva del Pacifico, piuttosto che per quella dell’Atlantico, ch’era stata preminente fino agli ultimi anni del ‘900. In quello schema la Cina era ancora lontana. Anche se, specialmente dopo la caduta del muro di Berlino, si pensava “alla fine della storia”. E quindi alla superiorità “morale” dell’Occidente capace di imporre, seppure progressivamente, l’innesto delle regole democratiche, veicolandolo con le leggi del libero mercato.

Al tempo stesso, agli occhi degli americani, il Mediterraneo perdeva gran parte della sua centralità. Non essendo più petro-dipendenti potevano impostare la loro politica estera su basi diverse. Cercando di imporre la democrazia sulla punta delle baionette, com’era avvenuto in Iraq. Oppure appiattendosi, in modo eccessivo, sulla politica israeliana. Il tutto mentre l’interesse verso la sponda del Pacifico, Cina in testa, diventava prevalente. Del resto c’era più di un perché. Non solo un gigantesco mercato da soddisfare, ma un’attitudine – quella dei popoli di quella parte di mondo – particolarmente favorevole allo sviluppo delle nuove tecnologie, basate sull’elettronica. La nuova manna del Terzo millennio. In grado di mobilitare interessi miliardari.

Sarà il prevalere di questi interessi, al di fuori di qualsiasi controllo, a determinare la crisi del 2008, con il fallimento della Lehman Brothers, che costringerà le autorità monetarie americane ad una manovra spericolata: tutta basata sull’espansione della base monetaria, destinata a ridare impulso al processo inflazionistico. Che nei Paesi del Nord Africa avrà un impatto devastante. Alla vigilia delle cosiddette “rivoluzioni arabe” il prezzo del grano era aumentato del 40 per cento. Insieme agli altri prodotti agricoli e materie prime. Ma in un Paese, come la Tunisia, stretta nella morsa di un precario equilibrio sociale, era stato il detonatore destinato a far esplodere la rivolta.

L’ANTI-LAICISMO IN TUNISIA

Ad approfittare della situazione furono soprattutto i movimenti politici legati all’anti laicismo, come i Fratelli musulmani in Egitto o Ennahdha, in Tunisia. Capaci di canalizzare il malcontento delle masse popolari, specie nelle regioni più povere ed arretrate dei rispettivi Paesi. Movimenti certamente diversi, ma non così distanti, dall’Islam più radicale. Con punti di contatto anche se non proprio di affiliazione. Comunque con una comune matrice: la difesa prioritaria dei propri membri, cui garantire adeguati livelli di benessere, soprattutto grazie all’uso di risorse pubbliche. In un momento in cui, a causa dei mutati equilibri geopolitici, gran parte di quelle risorse venivano meno.

Nel 2018, tanto per ricordare un dato, lo squilibrio delle partite correnti della bilancia dei pagamenti tunisina aveva raggiunto il 10,4 per cento del Pil. Ancora in attivo nei confronti dei Paesi occidentali, in particolare dell’Europa, il deficit era tutto sul versante dei Paesi del sud est asiatico. Ed in particolare nei confronti della Cina. Le cui produzioni, a bassissimo costo, avevano spiazzato e distrutto quel po’ di produzione autoctona. Il dilagare della corruzione, necessaria per garantire il consenso del più forte partito politico – Ennahdha – aveva fatto il resto.

Beji Caid Essebsi, che era succeduto a Ben Ali, nel frattempo fuggito in Arabia Saudita, aveva cercato di contenere lo strapotere di Ennahdha. Ma il risultato erano stati gli attentati di Susa e del Bardo, rivolti contro una delle poche risorse di cui la Tunisia poteva ancora vantare: il turismo e gli investimenti esteri nel relativo indotto. Vale a dire l’immobiliare e la ricezione alberghiera. Nessun collegamento diretto ed esplicito: ovviamente tra Ennahdha e i terroristi dello Stato islamici. Ma da allora l’impegno riformatore del nuovo Presidente aveva subito una battuta d’arresto.

LA LINEA DI SAIED

Questo retroterra spiega il comportamento di Kaïs Saïed, il nuovo Presidente che, con piglio deciso, cerca di imporre al Paese una rivoluzione di tipo giacobino. Non spetta a noi giustificare o condannare, ma solo cercare di capire. Sciogliere Ennahdha, limitando potere del Parlamento, è stato un atto di sfida. Che ha dimostrato, tuttavia, la debolezza di quell’organizzazione politica. Radicata soprattutto nel sud del Paese, ma del tutto minoritaria tra i ceti più evoluti e moderni del Paese. Che guardano ancora, con un misto di speranza, agli sviluppi di una politica che punti alla modernizzazione del Paese, nel segno di una laicità di tipo occidentale.

Limitare i poteri della magistratura è stato un atto coerente con gli sviluppi di quella politica. Troppo spesso e non solo in Tunisia, l’usbergo dell’indipendenza è solo una foglia di fico che nasconde posizioni di potere autoreferenziali. L’Occidente così critico rispetto a quelle scelte, fino al punto di ritardare la fornitura degli aiuti promessi, deve rendersi conto delle antinomie di un processo storico, che non è mai “un pranzo di gala”. Ma quel “legno storto” di cui parlava Emmanuel Kant. Attenti quindi a non rinnovare gli errori passati. Sperando nel trionfo della democrazia, in passato fu abbattuto Saddam Hussein, in Iraq, e fu solo l’inizio di un’immane tragedia.

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