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Donald Trump Elon Musk

Come Trump e Bolton incalzano e seducono Israele su Cina, Iran e Siria

Il Punto di Marco Orioles sugli incontri tenuti in Israele dal Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa, John Bolton 

 

Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Usa John Bolton è volato in Israele per rassicurare un alleato chiave dopo la decisione improvvisa, e da molti ritenuti improvvida, di Donald Trump di ritirare le truppe americane dalla Siria. Ma non c’era solo la Siria al centro dei colloqui tenuti da Bolton a Gerusalemme. Si è parlato, tra le altre cose, del contenimento dell’influenza iraniana nel Levante, principale preoccupazione del governo guidato da Benjamin Netanyahu. Del piano di pace tra israeliani e palestinesi, che sarà rivelato “nei prossimi mesi”. E anche dell’ossessione dell’amministrazione Trump: la Cina, le sue controverse tecnologie per le telecomunicazioni, e l’imperativo, per l’America, di convincere partner come Israele a ridurre i legami con una superpotenza che mira a strappare agli Stati Uniti la palma di leader politico, economico, tecnologico e militare.

Ma non potevano che essere gli ultimi sviluppi sul fronte della guerra civile siriana a tenere banco nelle conversazioni che Bolton ha intrattenuto con il premier israeliano e con alti esponenti del governo di Gerusalemme. Un argomento prioritario per lo Stato ebraico, e non solo per ragioni squisitamente geografiche. Israele è pienamente coinvolto in Siria, dove ha clandestinamente sostenuto le opposizioni al regime di Bashar al-Assad, anche per via dell’intromissione iraniana nel conflitto e del tentativo di Teheran di egemonizzare la Siria al fine di trasformarla in un’avanguardia nel sempiterno conflitto con un paese, Israele, ritenuto dagli ayatollah il nemico numero uno per ragioni ideologiche e religiose.

Il viaggio di Bolton è valso anzitutto come un segnale forte da parte degli Stati Uniti, che pur avendo deciso il disimpegno dalla Siria non vogliono mettere a repentaglio gli equilibri in una regione strategica in cui Israele rappresenta un avamposto degli interessi occidentali. La visita, inoltre, acquista ulteriore rilevanza alla luce della tempistica, avvenendo a poche settimane dal clamoroso annuncio di Trump di voler ritirare “ora” i soldati americani.

Da questo punto di vista, le dichiarazioni fatte da Bolton a Gerusalemme sono servite a dissipare i vari dubbi seminati dalla decisione trumpiana. Il Consigliere per la Sicurezza Nazionale ha sostanzialmente confermato l’orientamento del governo Usa. “Il punto principale”, ha affermato, “è che noi ci stiamo per ritirare dal nordest della Siria” Ma l’uscita delle truppe americane non è incondizionata. È, semmai, subordinata ad alcune “decisioni politiche che abbiamo bisogno di implementare”. “Ci sono”, ha spiegato Bolton, “obiettivi che vogliamo raggiungere che condizionano il ritiro. (…) Il piano o la tempistica del ritiro emergeranno dal compimento delle condizioni e dalla realizzazione delle circostanze che vogliamo vedere. E una volta che ciò è fatto, allora si potrà parlare di un piano”.

Quali sono, dunque, le condizioni poste dagli Usa? Anzitutto, il reale, definitivo e documentabile annientamento dello Stato Islamico. Bolton ha chiarito che gli Usa si ritireranno dalla Siria “in un modo che assicuri che Isis sia sconfitto e non sia in grado di risorgere e diventare di nuovo una minaccia”. Ciò significa che i soldati americani non abbandoneranno il campo prima di aver centrato quel risultato. Un ragionamento che era implicito nelle ultime dichiarazioni con cui lo stesso Trump ha mostrato di aver cambiato idea rispetto alle iniziali intenzioni di riportare i soldati a casa hic et nunc. Nelle parole affidate alla stampa dal presidente negli ultimi giorni, l’uscita della Siria da immediata è trasmutata in “lenta” e “progressiva”, fino ad essere quantificata in un tempo minimo di quattro mesi, secondo le valutazioni del Pentagono che ha considerato irrealizzabile anche da un punto di vista logistico un ritiro frettoloso. A corroborare questo nuovo orientamento ci ha pensato lo stesso capo della Casa Bianca, dichiarando domenica di non aver “mai detto che lo avremmo fatto velocemente” il ritiro dalla Siria, e che “non ci ritireremo finché Isis non sarà scomparso”.

La seconda condizione posta dagli Usa riguarda i curdi siriani, ossia gli alleati scelti da Barack Obama prima e da Trump poi per condurre sul terreno le operazioni militari volte a sradicare lo Stato Islamico. La decisione del presidente Usa di riportare a casa i soldati aveva messo in allarme i curdi, lasciati improvvisamente soli a gestire le manovre aggressive della Turchia di Recep Tayyip Erdogan che ha ventilato una imminente invasione del nordest della Siria per infliggere una severa punizione a un movimento, quello dei curdi dello YPG, che Ankara considera un’organizzazione terroristica legata a doppio filo con il PKK turco.

La sollevazione, in America, è stata immediata: parlamentari dell’opposizione, ma anche repubblicani, hanno gridato allo scandalo per il modo con cui l’amministrazione Trump ha deciso di abbandonare al loro destino quelle forze che hanno condotto, per conto degli Usa e del mondo, la campagna militare contro lo Stato Islamico. Una scelta che ha anche spinto il rispettato Segretario alla Difesa Jim Mattis, gran tessitore di alleanze, a rassegnare seduta stante le dimissioni in polemica con una scelta considerata avventata e controproducente per gli interessi di lungo termine dell’America.

Conscio di tutto ciò, Bolton ha scelto il viaggio in Israele per segnalare il cambiamento di rotta della superpotenza a stelle e strisce. “Pensiamo”, ha dichiarato il Consigliere, “che i turchi non debbano intraprendere azioni militari che non siano pienamente coordinate e concordate con gli Stati Uniti, come minimo per non mettere in pericolo le nostre truppe, ma anche affinché si realizzino le richieste del presidente affinché le forze dell’opposizione siriana che hanno combattuto con noi non siano in pericolo”.

Erdogan, dunque, è avvisato: gli Stati Uniti non consentiranno alcun colpo di mano da parte della Turchia, dove Bolton è atteso oggi per trasmettere al governo di Ankara le nuove direttive di Washington. Il messaggio, naturalmente, è rivolto anche ai curdi e vale come solenne rassicurazione, ma anche come monito. Qualche giorno fa infatti i curdi avevano fatto sapere di aver chiesto la protezione della Russia e di Damasco al fine di scudarsi dall’ira del presidente turco. Non è necessario, fa sapere ora Bolton, che ha minimizzato il significato degli incontri tenutisi a Mosca tra emissari curdi e governo russo. “La mia impressione”, ha chiosato il consigliere, “è che quegli incontri a Mosca non siano andati bene. Penso che (i curdi) sappiano chi sono i loro amici”.

La terza condizione posta dagli Stati Uniti è di tipo essenzialmente strategico e riguarda l’Iran e le sue mire sul Levante. Bolton ha precisato che, da parte degli Stati Uniti, “non c’è desiderio di vedere l’influenza iraniana espandersi, questo è certo”. Tutta la pianificazione strategica dell’amministrazione Trump in Medio Oriente è stata volta, sin dalle prime battute, a contrastare l’offensiva di Teheran nella regione. Una linea che Bolton ha voluto confermare con la massima chiarezza, spiegando che il ritiro delle truppe dalla Siria non sarà completo, ma solo parziale. Gli Usa, cioè, non smobiliteranno l’intero dispositivo militare, ma lasceranno sul campo i soldati schierati nella guarnigione di Al Tanf, al confine con l’Iraq. Una base che sorge, non a caso, sulla direttrice che collega Teheran con Damasco passando per l’Iraq, e che l’Iran vorrebbe veder smantellata per poter rifornire senza disturbo di uomini e armamenti gli alleati sciiti di Hezbollah, acerrimi nemici di Israele. Sono musica, perciò, nelle orecchie del governo di Gerusalemme le dichiarazioni di Bolton secondo cui “la guarnigione di Al Tanf, (…) è ancora strategicamente molto importante in relazione alla nostra determinazione che l’Iran non ottenga un arco di controllo che si estenda dall’Iran al Libano e alla Siria attraverso l’Iraq”.

C’è spazio, nella visita israeliana dell’influente consigliere di Trump, anche per affrontare altri dossier. Come il piano di pace tra israeliani e palestinesi più volte annunciato dalla Casa Bianca ma mai venuto a galla. Ci ha pensato l’ambasciatore Usa in Israele David Friedman, al fianco di Bolton, a spiegare che il piano è “quasi completato” e che sarà rivelato “entro i prossimi mesi”, ossia non prima delle elezioni parlamentari che si terranno in Israele ad aprile. L’intenzione dell’amministrazione Trump è quello di smuovere le acque di una contesa rimasta al palo delle divisioni tra i contendenti. “L’ultima volta che c’è stato un significativo accordo tra israeliani e palestinesi”, ha ricordato Friedman, “è stata nel 1993. Un sacco di cose sono successe dal 1993”. L’obiettivo americano è di rimettere in moto il processo di pace e riaccendere la fiammella della speranza laddove, per oltre venticinque anni, nulla si è mosso.

Molto spazio, infine, hanno ottenuto le questioni inerenti la Cina. Con il Dragone, l’amministrazione Trump fa sul serio, come ha dimostrato la guerra commerciale lanciata a testa bassa nel 2018. L’America trumpiana intende contrastare con tutti gli strumenti a sua disposizione l’avanzata cinese nel mondo e il tentativo di Pechino di scippare a Washington il titolo di potenza egemone. Per centrare questo obiettivo, gli Stati Uniti hanno bisogno però della cooperazione fattiva degli alleati, chiamati ad allentare i legami con la Cina e a non favorirne lo sviluppo in campi strategici come le alte tecnologie.

Ecco perché, come segnala sul suo profilo Facebook l’analista Emanuele Rossi, Bolton ha avanzato a Israele la stessa richiesta posta a tutti i partner dell’America: non acquistare la tecnologia prodotta dai due colossi delle telecomunicazioni cinesi Huawei e Zte, che secondo Washington pongono rilevanti problemi di sicurezza. Ma da Gerusalemme, Washington si attende molto di più: come spiega un articolo del quotidiano israeliano Hareetz, gli americani vogliono che Israele “scelga da che parte stare”, se dalla parte di un alleato storico con gli Stati Uniti, che ogni anno destina loro 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari e le cui aziende hanno sviluppato con quelle israeliane un fitto intreccio di rapporti nei campi nevralgici della ricerca e sviluppo, o con una dittatura a partito unico e una potenza revisionista che non cela più la propria intenzione di ribaltare in proprio favore gli equilibri mondiali.

Il richiamo a Israele è doveroso, da parte degli Stati Uniti, vista la forte crescita dei legami commerciali tra Gerusalemme e Pechino. Era stato lo stesso Netanyahu, poche ore prima dell’arrivo di Bolton, a salutare entusiasta l’aumento del 56% delle esportazioni israeliane in Cina. Un segnale che, agli occhi dell’America, merita la più severa reprimenda.

E non c’è solo l’interscambio commerciale nel mirino dell’amministrazione Trump. Una fonte di preoccupazione è anche l’accordo con cui è stato affidato alla Shangai International Port Group il compito di costruire il porto settentrionale di Haifa. Un’intesa che già in passato a fatto inarcare i sopraccigli americani: vari membri del governo Usa e degli Stati Maggiori Riuniti delle forze armate  hanno ammonito che simili investimenti cinesi in infrastrutture israeliane potrebbero danneggiare la cooperazione con la marina americana, che utilizza spesso e volentieri i porti dello Stato ebraico. Come chiosa Haaretz, il messaggio che gli americani vogliono trasmettere ai partner israeliani è che “o fate ordine per quanto riguarda” i rapporti con la Cina, “o lo faremo noi”.

Ma è certamente nel campo delle tecnologie che comportano implicazioni militari che gli Usa vorrebbero che i rapporti sino-israeliani si allentassero. Sia per quanto concerne l’acquisizione di tecnologia cinese da parte israeliana, sia soprattutto per la cessione di tecnologia israeliana alla Cina. E qui, nota Hareetz, c’è un precedente: è il veto che nel 2000 l’America pose sull’accordo con cui Israele decise di vendere a Pechino i jet Phalcon. Israele fu costretto a cancellare l’intesa sotto la minaccia americana di vedersi ridotti gli aiuti miliardari americani per la difesa, e dovette persino pagare alla Cina una multa di 350 milioni di dollari. Questo episodio compromise gravemente le relazioni sino-israeliane, ma anche quelle tra America e Israele ne risentirono, al punto che molti esponenti del governo Usa si rifiutarono per anni di parlare con i funzionari della Difesa israeliana coinvolti in quell’accordo. La crisi con l’alleato americano fu così grave che, spiega un funzionario governativo citato da Hareetz,“fino ad oggi Israele non ha osato vendere alla Cina nemmeno un coltello da cucina con inciso sopra un simbolo dell’esercito”.

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