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Ecco come Trump si è rimangiato l’ordine di ritirare subito i soldati dalla Siria

Il Punto di Marco Orioles   A poco più di due settimane dal suo annuncio di un imminente ritiro delle truppe Usa dalla Siria, Donald Trump pare proprio averci ripensato. Lo shock degli alleati, le proteste bipartisan dei parlamentari del suo partito e delle opposizioni, le clamorose dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis e…

 

A poco più di due settimane dal suo annuncio di un imminente ritiro delle truppe Usa dalla Siria, Donald Trump pare proprio averci ripensato. Lo shock degli alleati, le proteste bipartisan dei parlamentari del suo partito e delle opposizioni, le clamorose dimissioni del Segretario alla Difesa James Mattis e i discreti suggerimenti dei suoi generali hanno spinto il presidente a rivedere il suo piano, che ora, dai trenta giorni ventilati all’inizio, prevede il ripiego dei soldati in almeno quattro mesi: il minimo sindacale, secondo il parere informato del Pentagono, per scongiurare una frettolosa fuga che avrebbe messo a repentaglio la stessa vita degli uomini in divisa e avrebbe abbandonato al loro destino e senza scialuppa di salvataggio i valorosi alleati curdi dell’YPG.

La cronaca politica di questi quindici giorni testimonia il modo rocambolesco, e tutto trumpiano, con cui il capo della casa Bianca si è rimangiato il suo ordine perentorio. Un passo indietro che vanifica, seppur solo in parte, l’impegno preso in campagna elettorale di riportare immediatamente a casa i “boys” da fronti che non sono, nel parere del presidente, strategici per il paese e che comportano un impegno di spesa non proporzionato ai vantaggi che l’America ne può ricavare.

Che il termine dei trenta giorni sarebbe stato annacquato era diventato chiaro appena una settimana dopo dal tweet fatidico di Trump. Era il giorno di Santo Stefano e il presidente era volato in Iraq a compiere una visita augurale ai soldati. Come hanno rivelato alla stampa due fonti dell’amministrazione, in quella cornice The Donald avrebbe rassicurato il comandante delle forze Usa in Siria ed Iraq, generale Paul J. LaCamera, che avrebbe avuto parecchi mesi di tempo a disposizione per realizzare un ritiro ordinato e sicuro delle truppe.

Un passo indietro, dunque, alquanto imbarazzante. Che ha costretto il presidente a prendere delle contromisure retoriche. Scegliendo il campo che gli è più familiare, i duecentottanta caratteri di Twitter, il 31 gennaio Trump ha confermato la procrastinazione ma rivendicando i propri meriti. “Se chiunque a parte Trump avesse fatto quel che ho fatto io in Siria, che era un putiferio zeppo di Isis quando sono diventato presidente, sarebbe un eroe nazionale. Isis è quasi completamente andato, stiamo lentamente rimandando le nostre truppe a casa con le loro famiglie, mentre al tempo stesso combattiamo i rimasugli dell’Isis”.

Con il suo tweet, dunque, Donald Trump ha sostanzialmente confermato la bontà della sua scelta a fronte del successo ottenuto sul terreno. Con l’Isis sconfitto, è il suo ragionamento, non c’è più ragione di schierare soldati americani sul fronte, che ora “lentamente” torneranno a casa anche se, nel frattempo, si preoccuperanno di finire il loro lavoro battagliando quel che resta delle bandiere nere. Come ha spiegato lo stesso giorno a Fox News, “puoi fare due cose alla volta”. D’altra parte, ha aggiunto, il venir meno dello schieramento americano in Siria non comprometterà la lotta al terrorismo in quanto “abbiamo altre basi nell’area. In particolare, ne abbiamo una in Iraq”. Quindi, rispedendo al mittente la critica di essersi rimangiato le proprie parole, Trump ha dichiarato alla sua emittente preferita che “non ho mai detto che mi sarei precipitato fuori”.

Trump si è dovuto sgolare non poco per convincere gli americani di non aver compiuto una scelta affrettata quanto controproducente. Quelli successivi all’annuncio del 19 dicembre sono stati giorni di polemiche roventi in cui il capo della Casa Bianca ha fatto da bersaglio a critici di tutti gli schieramenti. Il rimprovero che più l’ha ferito è arrivato dagli schermi televisivi, sotto la forma di una reprimenda da parte del rispettato ex generale ed oggi opinionista tv Stanley McChrystal, comandante dal 2009 al 2010 delle forze americane in Afghanistan. Intervenendo in una fascia oraria, quella dei talk show della domenica mattina, che Trump segue assiduamente, McChristal ha osservato che “se ritiri l’influenza americana (dalla Siria), è probabile che avrai maggiore instabilità e naturalmente sarà molto più difficile per gli Stati Uniti cercare di spingere gli eventi in qualsiasi direzione”.

Apriti cielo: la mattina del giorno dopo, il presidente ha aperto il suo profilo Twitter e ha digitato parole di fuoco all’indirizzo di McChrystal. “Ho fatto campagna elettorale”, ha scritto Trump, “dichiarando che saremmo usciti dalla Siria e da altri posti (e) ora i fake news media, o alcuni generali falliti, amano lamentarsi di me e delle mie tattiche, che stanno funzionando. Sto solo facendo quello che ho detto che avremmo fatto”.

La fine del 2018 non si è portata via le critiche. La questione Siria è rimasta al centro del dibattito pubblico anche con lo schiudersi del nuovo anno. Così, al primo consiglio dei ministri del 2019, il giorno 2, The Donald si è sfogato con i numerosi reporter presenti. “Non ho mai detto che saremmo usciti domani”, ha tuonato, sottolineando che il ritiro delle truppe dalla Siria sarebbe avvenuto in un non meglio precisato “periodo di tempo”. “Stiamo uscendo e stiamo uscendo in modo intelligente”, ha aggiunto, negando la natura improvvisata della sua originaria decisione. Quindi, in merito alla questione sollevata da più parti, quella dell’abbandono dei curdi, ha affermato che gli Stati Uniti non si dimenticheranno di loro, nonostante questi alleati abbiano qualcosa da farsi rimproverare. “Non mi è piaciuto il fatto”, ha spiegato, “che stanno vendendo all’Iran il piccolo (ammontare di) petrolio che hanno, e noi gli abbiamo chiesto di non venderlo all’Iran (…) Non siamo entusiasti di questo. Ok? Non sono per nulla contento (…) Vogliamo ciononostante proteggere i curdi. Vogliamo proteggere i curdi, ma non voglio rimanere per sempre in Siria. È sabbia. Ed è morte”.

Trump insomma, nonostante il passo indietro, rivendica la bontà della sua scelta. Rimane, a questo punto, l’interrogativo cruciale: quanto tempo ci vorrà prima che l’ultimo soldato americano avrà abbandonato la Siria? Ci avevano pensato due gole profonde dell’amministrazione, il 31 dicembre, a svelare il mistero: ci vorranno quattro mesi. L’indiscrezione ha trovato conferma ieri in un servizio della Cnn che ha citato a supporto numerose fonti del Pentagono.

Centoventi giorni, spiega una fonte, è il tempo necessario per “cercare di compiacere il presidente e fare in modo che non vengano uccisi tutti” i soldati a stelle e strisce. “Ma se lo chiedete a me”, ha aggiunto il militare, “dovrebbero avere più tempo”. Prima di abbandonare il campo vanno infatti risolti una serie di problemi di non poco conto, inclusa la decisione da prendere sulle tonnellate di materiale militare e di munizioni presenti in Siria che non devono finire nella mani sbagliate. Quattro mesi, fa capire la fonte, è un margine appena sufficiente per scongiurare conseguenze potenzialmente nefaste.

Trincerandosi dietro l’anonimato, le fonti militari sentite dalla CNN non risparmiano stoccate al presidente. La decisione di ritirare le truppe è, a loro avviso, avventata e dannosa per la stessa immagine della superpotenza. Cosa dirà, si chiedono, il Segretario di Stato Mike Pompeo quando, nelle prossime settimane, ospiterà a Washington i rappresentanti dei 73 paesi che fanno parte della Coalizione Globale contro l’Isis? Come spiegare loro una decisione presa senza consultare nessuno, tanto meno i leader dei paesi che si sono compattati più di quattro anni fa nel comune sforzo di debellare il terrorismo jihadista?

Domande che, per il momento, restano senza risposta.

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