Partiamo dai fatti.
Presso il prestigioso Brookings Institution, il 13 gennaio, il segretario dell’Esercito Ryan McCarthy ha reso noto che entro la fine dell’anno i soldati americani saranno presenti secondo una rotazione della durata di cinque mesi in Thailandia, Filippine e Papua Nuova Guinea.
Dal punto di vista strategico questa comunicazione è fondamentale perché conferma ancora una volta la centralità che la regione dell’Indo-Pacifico ha ormai acquistato per gli Stati Uniti. Da un punto di vista strettamente geopolitico la regione dell’Indo-Pacifico nel contesto della strategia americana non include la sola Corea del Sud ma anche il confine indo-pakistano.
Il rafforzamento della presenza militare statunitense rientra ovviamente in una precisa finalità che è quella di contenimento della Nuova Via della Seta cinese; contenimento attuabile da un lato grazie al ruolo centrale giocato dalle infrastrutture militari e dall’altro lato dalla presenza continua e costante nel tempo delle truppe americane per contenere l’espansionismo cinese.
Potremmo in un certo senso parlare di contenimento a scopo dissuasivo. Per questa ragione non solo è fondamentale il consolidamento della tradizionale cooperazione nella regione dell’Indo-Pacifico in materia di sicurezza ma è altrettanto fondamentale servirsi dell’Indo-Pacifico come base per testare un nuovo concetto strategico e cioè le operazioni multi-dominio in base al quale gli Stati Uniti intendono contrastare un avversario su tutti i domini (aria, terra, spazio marittimo e spazio cibernetico).
In questo contesto la stretta collaborazione con il Giappone, la Thailandia e Singapore risulta essere fondamentale per testare l’efficacia di questo nuovo approccio strategico. Non a caso il nuovo concetto strategico è stato testato per la prima volta nel 2018 e poi nel 2019 con l’esercitazione Orient Shield nel Mar Cinese Orientale.