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Perché la tregua commerciale fra Usa e Cina è fragilina

Ecco come si è concluso il round del negoziato Cina-Usa sul commercio. Il Punto di Marco Orioles

 

Il primo round del negoziato sino-americano sul commercio tenutosi da quando Donald Trump e il suo collega cinese Xi Jinping hanno concordato una tregua alla guerra commerciale si è concluso nel segno della buona volontà, anche se con pochi risultati concreti. Gli Stati Uniti strappano dal partner alcune concessioni, come l’aumento delle importazioni cinesi, ma per ottenere ciò che vogliono, ossia un ripudio delle pratiche giudicate “sleali” e una profonda riforma dell’economia del Dragone in chiave di maggiore apertura, ci vorranno altri appuntamenti. E non è detto che le parti raggiungeranno un accordo entro la deadline del 2 marzo fissata da Trump al G20 di Buenos Aires, dopo la quale – in assenza di un’intesa globale – scatteranno gli aumenti dei dazi su duecento miliardi di esportazioni cinesi in America voluti da The Donald e dai falchi della sua amministrazione.

L’esito dei colloqui tenutisi a Pechino è dunque interlocutorio. Non poteva essere altrimenti: i due governi hanno schierato sul tavolo negoziale solo le seconde file, riservando ai prossimi incontri il confronto tra i pesi massimi. Ciononostante, Washington e Pechino suonano note di ottimismo. Ieri Trump ha detto che gli Usa stanno ottenendo un “successo tremendo” nei colloqui, che “stanno andando molto bene”, mentre il portavoce del ministero del commercio cinese, Gao Fang, ha dichiarato che le due parti si sono confrontate in modo “serio” e “onesto”, al punto di aver esteso gli incontri ad un terzo giorno fuori programma, cosa che mostra, secondo il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lu Kang, che “le due parti hanno condotto il confronto in modo davvero serio”.

Preoccupata per gli effetti dei dazi americani sulla propria crescita economica, la Cina sta facendo il possibile per venire incontro alle richieste della controparte. Dal giorno della tregua, stabilita il 1 dicembre, Pechino ha tenuto fede alla promessa di ridurre lo squilibrio del deficit commerciale aprendosi maggiormente all’export a stelle e strisce. Tra le mosse più significative, si segnalano gli ingenti ordinativi di soia Usa; il taglio dei dazi sulle auto americane, punto critico dell’agenda trumpiana di rinascita industriale; la parziale marcia indietro sul piano “Made in China 2025” che prevedeva, originariamente, di puntare tutto sulla crescita sussidiata di campioni industriali nazionali; e l’ordine alle raffinerie nazionali di procedere all’acquisto di petrolio Usa. Tre giorni fa, è giunto quindi un altro segnale importante: la decisione di importare dall’America cinque nuove varietà di prodotti agricoli geneticamente modificati, gesto che l’agrobusiness a stelle e strisce attendeva da anni.

Tutte mosse pensate per segnalare a Washington che la Cina non intende sottrarsi al confronto sollecitato dagli Usa ed è disponibile a venire loro incontro. Ma, come ha sottolineato un editoriale del China Daily di mercoledì, Pechino non farà “concessioni irragionevoli” e pretende che le due parti si incontrino a metà strada. L’esatto contrario della posizione Usa, che pretende misure sostanziali che comporterebbero, da parte di Pechino, una sorta di resa incondizionata.

Le dichiarazioni rilasciate a margine del negoziato mettono in evidenza come la distanza rimanga ampia. L’ufficio del Rappresentante Usa del Commercio, Robert Lighthizer, ha emesso un comunicato in cui si sottolinea come le due parti, a Pechino, abbiano discusso dei “modi per ottenere equità, reciprocità ed equilibro nelle relazioni commerciali”, e che vi sia il “bisogno, in qualsiasi accordo” di prevedere “una completa implementazione soggetta a continue verifiche e efficace imposizione”. Come dire: non ci fidiamo, a meno che non siano messe nero su bianco regole stringenti, comprensive di sanzioni in caso di inadempienza da parte cinese.

Ci sono punti, nel negoziato in corso, particolarmente ostici, come la pretesa americana che la Cina smetta di indulgere in pratiche sleali come i trasferimenti tecnologici forzati, il furto di proprietà intellettuale e le cyberintrusioni che, per Pechino, hanno rappresentato altrettanti strumenti per recuperare posizioni nella gara per la leadership economica con il colosso Usa. Un’intesa su questi punti rappresenta la differenza tra un successo ed un fallimento, e la Cina ne è ben consapevole, come dimostrano le parole di Gao, secondo il quale questi temi hanno rappresentato “una parte importante” dei colloqui di Pechino. “Ci sono stati progressi in queste aree”, ha spiegato il portavoce, senza però entrare nel merito

La minaccia trumpiana di alzare i dazi su duecento miliardi di esportazioni cinesi dal 10% al 25% in caso di mancato accordo entro il 2 marzo rappresenta uno stimolo formidabile per la Cina e un pungolo a mostrarsi accondiscendenti. Ecco perché, al termine di questo primo round negoziale, Pechino insiste nel mostrare tutta la propria morbidezza. La tre giorni di colloqui nella capitale, ha affermato il ministero del Commercio cinese in una nota, “ha migliorato la mutua comprensione e gettato le fondamenta per risolvere i temi di mutuo interesse. (…) Implementando attivamente l’importante consenso raggiunto dai due capi di Stato, entrambe le parti hanno avuto scambi ampi, in profondità e dettagliati su temi commerciali di mutuo interesse e su temi strutturali. Entrambe le parti”, inoltre, “hanno concordato di mantenersi in stretto contatto”.

A complicare un quadro già difficle ci sono, poi, le diverse voci in seno all’amministrazione Trump, non proprio concordi sulla linea negoziale da tenere con la Cina. Esistono almeno tre scuole di pensiero nel team Trump. La più importante, almeno per quanto concerne la capacità di ottenere l’ascolto del presidente, è quella che fa capo a Lighthizer, il potente rappresentante del commercio e fautore dello scontro totale. Lighthizer punta né più né meno che ad una drastica modifica strutturale dell’economia cinese, da perseguire tramite una fitta serie di cambiamenti verificabili e, in caso di inadempienza, sanzionabili con il ricorso a misure punitive.

Una posizione che non coincide con quella del Dipartimento del Commercio, il cui capo, il Segretario Wilbur Ross, ha spinto sin dagli albori della presidenza Trump per siglare un accordo che si sostanziasse nell’acquisto, da parte cinese, di un ampio paniere di beni made in Usa, dal cibo al gas naturale, così da rimettere sotto controllo quel deficit commerciale su cui The Donald ha ripetutamente inveito.

Vi è, infine, la linea del Dipartimento del Tesoro guidato dal Segretario Steven Mnuchin, che, pur auspicando un accordo, vedrebbe di buon occhio il mantenimento a tempo indeterminato dei dazi del 25% imposti da Trump quest’estate su cinquanta miliardi di importazioni dalla Cina e di quelli del 10% su altri duecento miliardi di beni del Dragone.

Trovare una sintesi, tra posizioni così differenti, non sarà facile. Tutto dipenderà naturalmente dal prosieguo del negoziato bilaterale, e dalla capacità della Cina di blandire la controparte con decisioni che appaiano meno di forma e più di sostanza. Non è stato resa nota, almeno sinora, la data precisa in cui si terrà un nuovo round di colloqui. La speranza di un confronto apicale nella cornice del World Economic di Davos è sfumata ieri con l’annuncio della Casa Bianca che Trump rimarrà in America a causa del prolungarsi dello shutdown. Tutto è rimandato, dunque, alla fine del mese, quando il vicepremier cinese Liu He, incaricato da Xi di condurre il negoziato, è atteso a Washington.

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