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Todesfuge

Rileggendo Todesfuge (Fuga di morte), poesia di Paul Celan sui campi di sterminio nazisti (con dedica alla senatrice Liliana Segre)

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nato a Czernowitz nel 1920, nella Bucovina annessa alla Romania dopo la fine della Grande Guerra, educato in yddish e in tedesco, l’ebreo Paul Celan — anagramma di Ancel (si pronuncia Zélan) — scelse di fare i conti con Auschwitz componendo versi sulla Shoah nella propria lingua madre.

“Todesfuge” (“Fuga di morte”) è la sua lirica più celebre. Iniziata nel 1945, nella sua città natale, venne terminata a Bucarest nel periodo intercorso tra la deportazione e l’assassinio dei genitori nel campo di Michajlovka, in Ucraina, e lo sterminio degli ebrei della Bucovina.

Contro Celan, Theodor W. Adorno sostenne l’impossibilità di fare poesia dopo Auschwitz. Era un paradosso, usato per significare che ogni tentativo di descrivere l’orrore dei campi di sterminio ricorrendo all’arte era destinato al fallimento; e che, anzi, lo stesso ricorso all’arte rappresentava quasi un’offesa alla memoria delle vittime della “Soluzione finale”.

Celan si oppose al divieto e creò quella lirica del lamento nel silenzio infinito che è “Todesfuge”, e rifiutando per anni di incontrare Adorno (v. Enzo Traverso, “Auschwitz e gli intellettuali. La Shoah nella cultura del dopoguerra”, il Mulino, 2004). Adorno riconobbe più tardi la velleità della propria prescrizione. Primo Levi, a sua volta, gli contestò di essere caduto in contraddizione per aver emesso una sentenza di condanna usando però ancora la parola scritta, e ribatté che l’unica poesia possibile su Auschwitz era proprio la poesia di Celan.

“Todesfuge” è, si può dire, la poesia sui campi di sterminio, anche se non vengono mai nominati. Si parla di una Margarete dai “capelli d’oro”; si parla di una Sulamith dai “capelli di cenere”; e si parla soprattutto di un misterioso “latte nero” che “noi”  beviamo. Non è immediatamente chiaro chi siano queste due donne, perché il latte sia nero, e chi siano questi “noi”; ma, a mano a mano che si procede nella lettura, si intuisce che tutte queste immagini, queste presenze, alludono appunto ai campi di sterminio.

La traduzione di “Todesfuge” che propongo al lettore è di Giuseppe Bevilacqua, a cui si deve la cura del Meridiano Mondadori dedicato a Celan. Segue il commento di un saggista e storico della letteratura italiana, Claudio Giunta, che mi sembra particolarmente acuto e azzeccato.

Dedico questo mio Bloc Notes alla senatrice Liliana Segre.

 Todesfuge

Negro latte dell’alba noi lo beviamo la sera
noi lo beviamo al meriggio come al mattino lo beviamo la notte
noi beviamo e beviamo
noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
egli scrive egli s’erge sulla porta e le stelle lampeggiano
egli aduna i mastini con un fischio
con un fischio fa uscire i suoi ebrei fa scavare una tomba nella terra
ci comanda e adesso suonate perché si deve ballare

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
Nella casa vive un uomo che gioca colle serpi che scrive
che scrive in Germania quando abbuia i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith noi scaviamo una tomba nell’aria chi vi giace non sta stretto

Egli grida puntate più fondo nel cuor della terra e voialtri cantate e suonate
egli estrae dalla cintola il ferro lo brandisce i suoi occhi sono azzurri
voi puntate più fondo le zappe e voi ancora suonate perché si deve ballare

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio come al mattino ti beviamo la sera
noi beviamo e beviamo
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith egli gioca colle serpi
Egli grida suonate più dolce la morte la morte è un Maestro di Germania
grida cavate ai violini suono più oscuro così andrete come fumo nell’aria
cosi avrete nelle nubi una tomba chi vi giace non sta stretto

Negro latte dell’alba noi ti beviamo la notte
noi ti beviamo al meriggio la morte è un Maestro di Germania
noi ti beviamo la sera come al mattino noi beviamo e beviamo
la morte è un Maestro di Germania il suo occhio è azzurro
egli ti coglie col piombo ti coglie con mira precisa
nella casa vive un uomo i tuoi capelli d’oro Margarete
egli aizza i mastini su di noi ci fa dono di una tomba nell’aria
egli gioca colle serpi e sogna la morte è un Maestro di Germania

i tuoi capelli d’oro Margarete
i tuoi capelli di cenere Sulamith

 

Chi parla, in questa poesia? Chi sono i «noi» che si affacciano già al primo verso? Non lo comprendiamo subito, perché l’immagine che apre il testo è enigmatica: si parla infatti di un «latte nero» che «noi beviamo» a ogni ora del giorno e della notte. Il quarto verso risponde alla nostra domanda: si tratta di prigionieri che «scavano» una tomba; e i versi successivi non lasciano dubbi sul fatto che ci troviamo in Germania, in un campo di concentramento, e che quei prigionieri sono costretti da uno dei capi del campo sia a scavare delle tombe (che presumibilmente sono destinate proprio a loro, o ai loro compagni) sia a suonare e a ballare.

L’uomo che dà questi ordini atroci non è un selvaggio, è una persona che scrive, legge, conosce Goethe (Margarete è un personaggio del Faust). Ma proprio questo dettaglio, evocato dalla frase «i tuoi biondi capelli Margarete», rende la scena ancora più macabra e straziante; è come se Celan constatasse che una delle più raffinate culture del mondo – quella tedesca – ha prodotto uno dei più atroci abomini della storia umana: il nazismo, lo sterminio programmato degli ebrei.

Nelle strofe successive ritorna il leitmotiv del «latte nero», e ritornano i personaggi introdotti nella prima strofa, ma l’azione va avanti: la guardia del campo non si limita a dare ordini, diventa minaccioso, mostra la sua pistola, aizza i suoi cani, spara, uccide. Inoltre, Celan introduce, o meglio evoca, un nuovo personaggio, un nuovo nome, Sulamith, la fanciulla ebrea cantata nel Cantico dei Cantici, che – coi suoi capelli di cenere, neri e bruciati dal forno crematorio – diventa il simbolo di tutti gli ebrei uccisi nei campi. E nei due versi finali le due ragazze si trovano affiancate: «i tuoi capelli d’oro Margarete / i tuoi capelli di cenere Sulamith» – semplicemente, senza commento, perché il lettore è ormai pronto a capire la portata simbolica di questi nomi, il loro essere immagine, rispettivamente, del popolo tedesco e del popolo ebraico: i carnefici e le vittime.

La struttura della poesia merita una considerazione attenta, perché il titolo Todesfuge allude all’articolazione della fuga musicale, cioè di quella composizione (le più celebri sono le fughe del grande musicista settecentesco Johann Sebastian Bach) che si sviluppa a partire da un tema principale (soggetto) e da alcuni temi secondari (contrassoggetti) che vengono poi ripresi più volte (quattro, di solito) con lievi variazioni tonali.

Di fatto, anche questa poesia è organizzata -proprio come una fuga musicale- in quattro sequenze di lunghezza variabile che ripropongono e rielaborano il motivo principale del latte nero, e una serie di motivi secondari: l’uomo nella sua casa, Margarete dai capelli biondi, Shulamith dai capelli di cenere, la musica suonata dai prigionieri. Questi motivi, tuttavia, non vengono sviluppati in modo da comunicare un messaggio di senso compiuto: sono invece evocati in forma di frammenti che non sembrano avere un preciso rapporto con quelli che li precedono e li seguono, come se il poeta (e i suoi personaggi) non fosse in grado di comprendere la realtà che sta cercando di descrivere, e vedesse tutto come attraverso una nebbia, o in sogno.

Di fatto, la struttura della fuga dà al testo un tono cantilenante, quasi da filastrocca, e molti suoi dettagli ci trasmettono l’impressione di trovarci dentro un mondo stregato: il misterioso «latte nero», l’uomo coi serpenti, la musica che accompagna la danza, musica che viene ‘diretta’ da un «maestro tedesco» che s’identifica con la morte – non sembra soltanto una ‘fuga di morte’ ma anche una di quelle danze macabre che venivano dipinte sui muri delle chiese tardo-medievali per ricordare ai fedeli che bisogna morire (memento mori: ‘ricordati che devi morire’, è la locuzione latina che accompagnava queste immagini).

 

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