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Russia

Quando la propaganda (di Putin) è l’unico mezzo per sopravvivere

Il sistema propagandistico ereditato dall’Unione Sovietica e perfezionato nel ventennio putiniano non è solo arma di guerra rivolta all’esterno ma vera e propria realtà parallela ad uso e consumo interno per garantirsi la sopravvivenza. L'articolo di Enzo Reale per Atlantico Quotidiano

 

Quello sull’opportunità di regalare spazio pubblico senza contraddittorio alla propaganda russa è un dibattito risolto alla radice in tutte le democrazie occidentali: è ovvio che non si può e non si deve fare, perché il regime di Putin usa la disinformazione come arma di guerra. In Italia no, siamo ancora alle accuse di “censura” se ogni sera non si dà voce agli agit-prop del Cremlino (quando va bene) o direttamente ai rappresentanti politici dello Stato aggressore. Non ci si inganni: chi denuncia tutto il tempo l’ingiustizia insita nel vietare le competizioni agli atleti o nel non “sentire l’altra campana” (che da noi si sente in continuazione, peraltro) lo fa soprattutto per evitare di occuparsi della guerra e dei massacri di Putin. Non solo la destra social-nazionalista e la sinistra comunista ma anche presunti liberali/libertari, più preoccupati di criticare le presunte contraddizioni dell’Occidente che di condannare l’invasione di una nazione europea da parte della Wehrmacht russa. Una deriva sconcertante e – a quanto pare – difficilmente arginabile.

La più interessante inchiesta su cosa pensano i russi della guerra l’ha svolta la giornalista Shura Burtin per il sito Meduza, che si muove da mesi con circospezione tra le maglie della censura (quella vera) del regime putiniano. Insieme ad una sociologa, ha condotto una serie di interviste a Mosca e nella regione di Kaluga (150 chilometri a sud della capitale) chiedendo a diversi gruppi di persone il loro parere sul conflitto. Ne è uscito un quadro in cui il cinismo, l’adesione pressoché incondizionata alle parole d’ordine del potere, il disprezzo o l’indifferenza per “il nemico”, la fanno da padroni. Consiglio la lettura integrale del lavoro per capire gli effetti permanenti di un’azione propagandistica preparata e condotta da anni in vista dell’attuale campagna bellica.

La propaganda di Stato è una derivata al ruolo messianico che la Russia si è attribuita nel corso dei secoli e che il putinismo ha reso dottrina ufficiale. I discorsi pre-guerra di Putin rivelano un’interpretazione mitica e mistica della storia nazionale, nella quale i russi diventano una sorta di popolo eletto incaricato di portare la civiltà in un contesto semi-barbarico, proprio in quanto percepito come “anti-russo”. Il Russkij Mir è tutto, chi vi si sottrae diventa nulla: in base a questa narrazione di cui Mosca è il centro politico, ideologico e perfino religioso, l’Ucraina è vista come una non-nazione, un mero territorio disponibile a cui non è possibile riconoscere l’attributo della sovranità. La pretesa unicità russa si traduce automaticamente in una sindrome da accerchiamento perenne, per cui il popolo e lo Stato sono vittime di una minaccia esistenziale dai contorni variabili secondo le circostanze e le epoche. È la saldatura tra ambizioni imperiali e complesso di inferiorità, un pensiero apocalittico che attraversa tutta la storia russa, dallo zarismo al comunismo sovietico. Fino ai giorni nostri.

Alla parata militare del 9 maggio un Putin invero piuttosto dimesso spiegava quella che fino a quel momento era stata definita semplicemente come una “operazione speciale” facendo servire il concetto di “attacco preventivo”, a cui la Russia era stata costretta per difendersi dalle intenzioni ostili della Nato e dell’Ucraina. Questo stravolgimento della realtà, esempio superlativo di doublespeak orwelliano, non è un semplice artificio retorico ma la logica conclusione del processo appena descritto: la propaganda di Stato – portata al parossismo – non si limita a stravolgere i fatti ma crea una realtà alternativa nella quale il regime si installa per sopravvivere. In poche parole gli ingranaggi della dittatura, a partire dal leader supremo, finiscono per credere alle proprie menzogne, per convenienza o per convinzione. Da qui la sopravvalutazione della potenza militare russa e la sottovalutazione della volontà e della capacità di resistenza ucraine.

Dalla menzogna suprema, la guerra di difesa contro un nemico che mai aveva manifestato intenzioni ostili, si può articolare un processo a ritroso che coinvolge tutte le fasi del conflitto:

– la televisione russa mostra immagini di soldati che “liberano” interi villaggi dal controllo del “governo nazista” di Kiev e distribuiscono generi di prima necessità alla popolazione;
– nelle zone controllate dai russi gli ucraini ricevono i militari mandati da Mosca con sollievo e allegria, mentre i pochi che resistono sono ovviamente “nazisti” che non riconoscono la benevolenza della Grande Madre Russia;
– l’esercito ucraino ha assassinato migliaia di cittadini del Donbass negli ultimi otto anni, “un genocidio” secondo Putin, mentre i ribelli filo-russi rappresentano e difendono le aspirazioni dei russofoni a riunirsi con la madrepatria;
– non esistono città rase al suolo dai bombardamenti e, se le immagini dimostrano il contrario, sono stati gli ucraini ad auto-infliggersi la distruzione massiva per screditare i “liberatori” agli occhi dell’opinione pubblica internazionale;
– l’avanzata delle truppe russe si svolge secondo i piani, le ritirate sono sempre volontarie, Kiev non è mai stata l’obiettivo, gli scopi dell’operazione speciale erano fin dall’inizio limitati al Donbass;
– l’attacco missilistico alla stazione di Kramatorsk (50 morti e centinaia di feriti) è stato compiuto dagli stessi ucraini con i Tochka che hanno in dotazione;
– l’incrociatore Moskva è affondato prima a causa di una tormenta, poi di un incidente a bordo;
– nei sotterranei dell’Azovstal trovano rifugio i fascisti di Azov, interi squadroni della morte made in Nato e scienziati pazzi che sperimentano con armi di distruzione di massa;
– i massacri sono messinscene di Kiev: a Bucha i cadaveri si muovono, i morti abbandonati nelle strade sono comparse, le testimonianze comprate e i carri armati ripresi mentre sparano sui civili inermi manipolazioni della propaganda occidentale;
– nel teatro di Mariupol non è morto nessuno, anzi sì ma la struttura è stata fatta saltare in aria dal battaglione Azov;
– nell’ospedale pediatrico non c’erano pazienti, anzi sì, ma sono stati messi lì dai “nazisti” come scudi umani; anzi no, erano un obiettivo militare legittimo perché in realtà coprivano un laboratorio biologico;
– non è mai stata dichiarata nessuna guerra all’Ucraina, i soldati sono impegnati in un’operazione speciale che si risolverà in pochi giorni/settimane/mesi.

Non solo arma di guerra rivolta all’esterno ma vera e propria realtà parallela ad uso e consumo interno, il sistema propagandistico ereditato dall’Unione Sovietica e perfezionato nel ventennio putiniano è oggi il pilastro su cui poggia la residua stabilità di un regime impegnato a salire con vita da quella che doveva essere una cavalcata trionfale.

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