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Tutti i rischi per chi sfida il diktat Usa sul petrolio dell’Iran

L'attacco alle petroliere nel Golfo dell'Oman, lo scontro Usa-Iran e la partita energetica di chi cerca una scappatoia dal diktat Usa anti Iran spiegati da Francesca Manenti del Cesi (Centro studi internazionali).

Oltre a provocare una subitanea fiammata dei prezzi del petrolio nei mercato internazionali, gli attacchi avvenuti giovedì scorso a due petroliere che si trovavano nel Golfo dell’Oman – il secondo episodio in meno di un mese in cui dei cargo vengono presi di mira in quel tratto di mare – ha avuto l’effetto di riportare al centro dell’attenzione del mondo uno scontro, quello tra Stati Uniti ed Iran, che si sta consumando in un’area quanto mai strategica del pianeta, zeppa di petrolio ma anche gravata da una conflittualità che tutte le cancellerie temono possa andare fuori controllo.

Ma cosa è successo davvero giovedì e, soprattutto, in che contesto si inserisce un incidente in cui l’amministrazione Trump ha intravisto subito le responsabilità della Repubblica Islamica? A queste domande Francesca Manenti, senior analyst del Centro Studi Internazionali (Cesi) di Roma, risponde anzitutto con un invito alla cautela. “Non si sa ancora”, sottolinea Manenti, “né con che mezzi è stato condotto l’attacco né quale possa essere la regia”.

Di una cosa si può essere certi, secondo Manenti: chiunque sia stato, è un attore che ha deciso di “colpire un settore strategico per i mercati internazionali”. Non possiamo dimenticare, precisa la studiosa, che “la regione del Golfo è uno dei principali hub di produzione di petrolio, una regione in cui il discorso energetico diventa automaticamente geopolitico”. Una regione in cui “da una parte troviamo una Penisola arabica che annovera Paesi che sono tra i principali produttori di greggio al mondo, e dall’altra l’Iran, che era uno dei principali produttori ed esportatori di petrolio ma che gli Usa hanno deciso adesso di tagliare fuori dal mercato”.

Già, le sanzioni americane. Sono entrate in vigore lo scorso autunno, mentre a maggio sono scadute le esenzioni con cui l’amministrazione Trump aveva concesso ad un gruppo di ristretto di Paesi del tempo extra per trovare delle alternative al greggio di Teheran. L’obiettivo degli Usa, ora, è azzerare l’export dall’Iran. Ci riusciranno?

Manenti non ne è così sicura. “La decertificazione dell’accordo sul nucleare del 2015, il Jcpoa, è avvenuta unilateralmente da parte dell’America”, e questo non è andato giù né agli altri firmatari del patto, né ai Paesi che importavano petrolio dall’Iran e avevano preso a fare affari con la Repubblica Islamica e che in teoria non potranno farlo più a causa del dispositivo sanzionatorio Usa. Ecco perché questi Paesi, osserva Manenti, “stanno cercando di capire se le sanzioni sono aggirabili”.

Sono due in particolare “le soluzioni al vaglio di chi ha interesse a continuare ad acquistare il petrolio iraniano e a commerciare con l’Iran”, sottolinea l’esperta. C’è la strada scelta dall’Europa, la quale “già a partire dalla decertificazione del Jcpoa da parte dell’amministrazione Trump ha cercato di capire come formulare un meccanismo che faccia da scudo alle sanzioni Usa”.

A tal fine, l’Ue ha varato questo inverno uno Special Purpose Vehicle che ha chiamato “Instex”: uno strumento la cui ragion d’essere sta nel fatto, osserva Manenti, di “utilizzare, per scambiare petrolio e merci con l’Iran, non il sistema finanziario internazionale, ma un nuovo sistema che permette di proteggere i paesi e le aziende europee dalle sanzioni”. La sua genesi è stata lenta e faticosa, ma Instex parrebbe essere pronto a decollare: in visita a Teheran la settimana scorsa, il ministro degli Esteri tedesco, nota Manenti, “ha rassicurato la controparte iraniana della effettiva entrata in funzione di questo meccanismo nei prossimi mesi”.

Il metodo che i paesi asiatici, grandi importatori di greggio iraniano, starebbero contemplando per aggirare le sanzioni americane è invece un altro ed è, ci dice l’esperta, “la possibilità di acquistare il petrolio con una valuta diversa dal dollaro”. Qui spicca la Cina, la quale “sta guardando con interesse alla possibilità di utilizzare la propria moneta come valuta di scambio per le importazioni di petrolio”.

Non meno dell’Instex, questa soluzione presenta però incognite di tipo sia politico che finanziario. Si tratterebbe infatti di sfidare apertamente una campagna, quella anti-iraniana della Casa Bianca, che vede Trump e i suoi più stretti collaboratori impegnati a testa bassa e senza esclusione di colpi, come dimostra l’invio a maggio nel Golfo Persico di uno Strike Group capitanato dalla portaerei Abraham Lincoln e di uno squadrone di bombardieri B-52.

Ma è dal punto di vista finanziario che la sfida si fa ardita. Manenti ricorda infatti che c’è un prezzo da pagare quando si tenta di violare le sanzioni Usa, ed è il rischio della “esclusione dal mercato statunitense”. Una conseguenza inesorabile che né i Paesi europei né quelli asiatici possono contemplare con serenità.

Ecco perché secondo Manenti la questione del che fare con le sanzioni Usa, e con un governo americano che ha deciso di sbrogliare “con un approccio muscolare” un nodo di grande complessità quale quello iraniano, “è il grande banco di prova dell’Unione Europea”. Si tratta di “una partita di maturità” per un continente chiamato a contemperare “la necessità di mantenere il rapporto strategico con gli Stati Uniti e quella di salvaguardare i propri interessi”.

 

(estratto di un articolo pubblicato su policymakermag.it, qui la versione integrale)

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