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Che cosa succede nel golfo dell’Oman (mentre la missione trumpiana di Abe in Iran fallisce)

Il Punto di Marco Orioles

Ci sarebbero, secondo l’accusa mossa dagli Stati Uniti, le impronte digitali dei Guardiani della Rivoluzione nell’attacco avvenuto ieri mattina a due petroliere, una norvegese e una giapponese, che incrociavano nel golfo dell’Oman, a poche decine di km dalle coste dell’Iran.

Un incidente che ha luogo proprio mentre a Teheran si trovava il premier giapponese Abe Shinzo con il compito, affidatogli da Donald Trump, di persuadere la Repubblica Islamica ad accettare un negoziato. Un tentativo, quello di Abe, che naufraga dinanzi al no secco della Guida Suprema Ali Khamenei, che rigetta ogni ipotesi di dialogo con gli Usa e anzi li ammonisce: se volessimo la bomba, l’America “non potrebbe fare niente per fermarci”.

Ma a far abortire l’iniziativa di Abe è soprattutto quanto si verifica in quelle acque sempre più roventi, dove un mese fa altre quattro petroliere hanno subito un attacco al porto emiratino di Fujairah che gli Usa, per bocca del Consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, hanno addossato alla repubblica islamica.

L’ultimo capitolo di questa sfida che toglie il sonno alle cancellerie mondiali ha inizio ieri esattamente alle 6:12 e alle 7, quando la petroliera norvegese Front Altair e quella giapponese Kokuka Courageous lanciano in successione un segnale di emergenza che viene immediatamente captato dal vicino comando della Quinta Flotta Usa.

La Front Altair era partita dal porto emiratino di Ruwais con un carico di nafta destinato a Taiwan. La Kokuka Corageus era salpata invece dal porto saudita di Al Jubail verso Singapore con un carico di metanolo.

Quando le navi diramano il segnale di emergenza, la Quinta Flotta Usa invia immediatamente sul posto a “offrire assistenza” l’incrociatore U.S.S. Bainbridge. La situazione è molto confusa, ma appare subito grave: la compagnia norvegese rende noto infatti che la Front Altair è in fiamme e che il personale ha abbandonato la nave. Anche la ventina di marinai a bordo della Kokuka Corageus viene evacuata a causa di una esplosione.

In quelle ore concitate, l’agenzia di stampa iraniana IRIB diffonde via Twitter immagini che mostrano una fitta colonna di fumo nero elevarsi dalla Front Altair:

https://twitter.com/iribnewsFa/status/1139093954757046273

La notizia fa intanto  il giro del mondo e, quando viene recepita dai mercati, le conseguenze sono inesorabili: il West Texas Intermediate fa un balzo del 3% raggiungendo i 52,70 dollari al barile, mentre il Brent sale del 3,8% toccando la quotazione di 62,04 dollari.

A diverse ore dagli attacchi, quando negli Usa è ormai pomeriggio, arriva la sentenza dell’amministrazione Trump formulata dal Segretario di Stato Mike Pompeo in una conferenza stampa tenuta nella capitale che riecheggia in un successivo tweet partito dall’account di Pompeo. Il governo americano, tuona il capo della diplomazia a stelle e stisce, è giunto alla conclusione che “l’Iran è responsabile degli attacchi di oggi nel Golfo di Oman”, i quali rappresentano “uno sfacciato assalto alla libertà di navigazione”.

A dare man forte a Pompeo arriva poco dopo la dichiarazione del ministro degli Esteri saudita Adel al-Jubeir: “Non abbiamo alcun motivo”, sottolinea Jubeir, “per essere in disaccordo con il Segretario di Stato”. Più tardi, Riad farà sapere di aver sventato un attacco dal vicino Yemen avvenuto con cinque droni lanciati dai ribelli Houthi – alleati dell’Iran – che solo due giorni prima avevano compiuto un’azione analoga contro l’aeroporto saudita di Abba che aveva causato 26 feriti.

Tutti, insomma, puntano l’indice contro Teheran. Che tuttavia, con un tweet del ministro degli Esteri Javad Zarif, rigettano le accuse americane definendole prive di prove. Dietro l’attacco, Zarif intravede semmai l’ombra di una subdola “diplomazia del sabotaggio” messa in piedi dai falchi che governano a Washington – un Team B che, come sottolineato da Zarif qualche tempo addietro, ha al vertice il neocon John Bolton –  in un disegno che non fa altro che “coprire il terrorismo economico” degli Usa contro l’Iran.

Lo scontro frattanto si trasferisce al Palazzo di Vetro, dove l’ambasciatore americano pro tempore Jonathan Cohen cerca di convincere gli altri membri Consiglio di Sicurezza della responsabilità dell’Iran nei fatti del golfo di Oman. Un tentativo infruttuoso, che attira a Cohen gli strali del collega iraniano, che denuncia “un’altra campagna iranofobica” da parte degli Stati Uniti.

Sul far della sera, Washington mostra però quelle che considera le prove irrefutabili del coinvolgimento dell’Iran. Si tratta di un video, che viene diffuso dal Comando Centrale degli Stati Uniti, che sarebbe stato girato da un aereo militare che sorvolava la zona dell’incidente. Un filmato in in bianco e nero in cui si vedrebbe un’imbarcazione dei Guardiani della Rivoluzione approcciare la Kokuka Corageous poche ore dopo l’incidente.

“Alle 4:10 ora locale” – recita la dichiarazione del portavoce del Comando Centrale Usa, capitano Bill Urban – “un pattugliatore della Classe Gahsti (del Corpo dei Guardiani della Rivoluzione Islamica) ha approcciato la M/T Kokuka Corageus ed è stato osservato e filmato mentre rimuoveva una mina inesplosa”. I pasdaran, dunque, sarebbero intervenuti per cancellare le prove.

Le notizie che rimbalzano dal mondo hanno l’effetto di porre seduta stante in un imbarazzante secondo piano quelle relative alla concomitante visita a Tehran di Abe Shinzo, il primo premier giapponese a calcare il suolo dell’Iran dopo oltre 40 anni. Una visita in cui si rimarcano i 90 anni di relazioni diplomatiche tra Tehran e Tokyo. E che è stata benedetta dallo stesso Donald Trump che, durante il suo viaggio in Giappone due settimane fa, aveva di fatto affidato al suo amico ed alleato Abe il ruolo di mediatore.

Una responsabilità che il primo ministro aveva fatto propria, con uno sguardo più che interessato alle esigenze energetiche del suo Paese. Il Giappone infatti deve fare i conti con le sanzioni Usa contro l’export petrolifero dell’Iran, da cui il Giappone si approvvigionava abbondantemente fino a pochi mesi fa – grazie anche alle esenzioni dalle sanzioni concesse all’arcipelago dall’amministrazione Trump. “Waivers” che sono però venuti meno nel mese di maggio.

Parlando ai reporter prima di imbarcarsi sul volo per Teheran, Abe aveva detto che gli sarebbe “piaciuto avere candidi scambi di opinione con il presidente Rouhani e la Guida suprema Khamenei per ridurre le tensioni” di queste ultime settimane. Ma smentiva, Abe, di essere in procinto di trasmettere alla dirigenza della Repubblica Islamica un messaggio per conto del governo Usa. “Lo scopo primario” della visita, aveva chiarito un alto esponente del ministero degli Esteri giapponese alla vigilia del viaggio, “è di impedire che lo status quo si deteriori ulteriormente. (…) Il primo ministro non andrà” in Iran, precisava il funzionario, “come mediatore o messaggero” E aggiungeva: Il Giappone non sta né con l’una né con l’altra parte”.

La missione di Abe si snoda dunque all’insegna di vistose contraddizioni, tra smentite di un incarico affidatogli da Donald Trump e cenni fatti dallo stesso Abe alla volontà di “giocare qualsiasi ruolo possibile per promuovere la pace e la stabilità nella regione”. È un equilibrismo che tradisce le difficoltà di un alleato di ferro degli Usa come il Giappone a porsi come honest broker in una contesa che ha già superato il livello di guardia e da cui un Paese energivoro come quello guidato da Abe ha tutto da perdere.

Così, quando Abe incontra Rouhani mercoledì mattina, non può far altro che partire da una premessa a dir poco elementare: “i conflitti armati devono essere prevenuti a tutti i costi (…) non solo per questa regione ma per la prosperità globale”. “Noi”, sottolinea il premier,, “vorremmo svolgere il massimo ruolo che possiamo per ridurre le tensioni. Questo è ciò che mi ha portato in Iran”. Abe riporta al suo interlocutore anche la convinzione di “alcuni esperti che un conflitto possa innescarsi accidentalmente” a causa, anche, di episodi come quello di Fujairah del mese scorso, o di quello che Abe non sa ancora essere dietro l’angolo..

“L’Iran non comincerà mai una guerra”, lo rassicura Rouhani, che pero sente il dovere di rimarcare  che il suo paese “darà una risposta schiacciante a qualsiasi aggressione”. Torna quindi a ribadire, Rouhani, la posizione della Repubblica Islamica che da tempo è una:  la “fonte delle tensioni è la guerra economica lanciata dall’America contro l’Iran”

Nel colloquio tra i due leader c’è spazio anche per un significativo momento verità. Durante la conferenza stampa congiunta, il presidente iraniano sottolinea che nell’incontro con Abe, questi gli ha “detto che il Giappone è interessato a continuare a comprare il petrolio dell’Iran”.

È una dichiarazione che mette in serio imbarazzo il governo giapponese. Poco dopo, infatti, il portavoce del ministero degli Esteri giapponese, Takeshi Osuga, tenterà di disinnescare la mina attribuendo quell’affermazione in conferenza stampa di  Rouhani “desiderio della parte iraniana”. Osuga aggiungerà anche, significativamente, che “gli acquisti di petrolio sono decisi dalle compagnie private”.

Ma è  quando si trova al cospetto, il giorno dopo, di Khamenei che Abe è costretto a contemplare la propria impotenza.

Con parole che saranno rilanciate dal suo profilo Twitter, la Guida suprema liquida il tentativo di Abe di fare da tramite tra Usa e Iran. “Non abbiamo dubbi”, lo irride Khamenei, “della buona volontà e serietà” del primo ministro giapponese, tuttavia “ non considero Trump come una persona con cui vale la pena scambiarsi messaggi; non ho alcuna risposta per lui e non gli risponderò”.

Esclude anche apertamente, Khamenei, ogni trattativa tra Iran e Usa.  Non mentre le sanzioni Usa strangolano l’economia iraniana. Indomita, la Guida lancia anche una provocazione: non vogliamo la bomba nucleare, spiega l’ayatollah ad Abe, ma se la volessimo “l’America non potrebbe fare niente” per fermarci.

La missione del primo ministro giapponese, insomma, si arena di fronte all’ostinazione della Repubblica Islamica e a un nuovo, inquietante incidente nel tratto di mare più rovente della terra, lo stesso in cui gli Usa a maggio hanno inviato uno Strike Group capitanato dalla portaerei Abraham Lincoln e uno squadrone di bombardieri B-52 al fine di scoraggiare l’Iran dall’effettuare colpi di mano.

Se in quello di ieri ci fossero davvero le impronte degli ayatollah, le probabilità che quello Strike Group entri in azione aumenteranno senz’altro.

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