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Perché Renault ha snobbato Fca (e vuole ricucire con Nissan)

L'approfondimento di Daniela Coli

 

La vicenda Fca che formula e poi fa decadere la proposta di fusione con Renault accusando il potere politico francese di averla impedita è stata considerata dai media l’ennesima prova del nazionalismo francese nemico del nostro Paese.

L’Italia sta vivendo una delle peggiori crisi – da vent’anni non cresce e il debito pubblico aumenta -, è in preda della nostalgia de Les Trente Glorieuses, come li chiamano i francesi, il periodo del “miracolo italiano”, attraversato da tutta l’Europa dal 1946 al 1975. Un periodo di grande crescita dovuto al piano Marshall e all’americanizzazione. Quel periodo non c’è più. Come non c’è più il bipolarismo Usa-Urss e non ha senso non prenderne atto.

La strategia non è certo quella di isolarsi, ma di rendersi conto che da dieci anni Fca non è più italiana, ricavi e addetti italiani sono sotto il 10% del totale e ha un architettura societaria e fiscale tutta all’estero.

Torino è deindustrializzata. E tutto ciò è avvenuto senza che l’establishment politico chiedesse spiegazioni a una industria che lo Stato italiano ha sostenuto con ingenti aiuti pubblici per decenni, senza chiedere alcun controllo su di essa, al contrario di ciò che ha fatto lo Stato francese, maggiore azionista di Renault.

Non si vede perché Renault avrebbe dovuto fondersi con una industria con sede legale in Olanda e fiscale in UK, che produce Jeep a Detroit, tecnologicamente arretrata rispetto a Nissan, la cui alleanza per Renault è vitale.

La Francia è Stato da 400 anni, non ha la signoria come modello statuale come l’Italia e, chiusa la vicenda della fusione FCA-Renault, lo Stato francese ha addirittura deciso di rinunciare a parte delle sue azioni in Renault, perché ciò infastidisce Nissan.

Renault salvò Nissan in difficoltà finanziarie nel 1999, ha il 43,4% delle azioni Nissan con pieni poteri di influenza sulla casa nipponica, mentre Nissan ha solo il 15% di Renault e non ha diritto di voto nel consiglio di amministrazione della casa francese.

Nissan, però, è più grande di Renault e soprattutto ha capacità tecnologiche superiori a Renault in termini di elettromobilità e di auto ibride. Sia FCA che Renault, come ha sottolineato Handelsblatt, hanno urgente bisogno di una soluzione per una transizione veloce alle auto prive di emissioni. Fare la fusione con FCA senza Nissan o mettendo a rischio l’alleanza con Nissan sarebbe stato un disastro per Renault.

Come ha dichiarato il ministro dell’economia Bruno La Maire la fusione con Fca è fallita perché Renault non poteva mettere a rischio l’alleanza con Nissan, perché priorità dello Stato francese è proteggere l’occupazione e l’industria francese.

All’alleanza con Renault si è poi aggiunta Mitsubishi. Nissan e Mitsubishi hanno accesso al mercato americano e asiatico. Il Giappone ha un accordo importante con l’Europa e bisogna essere un po’ naif per parlare di fine dell’Europa, perché Renault preferisce un’industria giapponese a FCA non italiana da dieci anni. In Italia si guarda solo all’America, mentre l’Europa guarda anche all’Asia e all’Africa.

Il Giappone trasferirà in Brasile e in Sud America parte delle mille imprese che aveva in UK a causa di Brexit. In Giappone si punta molto sul Brasile e il vicepresidente brasiliano Hamilton Mourao il 7 giugno ha aperto a Huawei e 5G, nonostante Trump avesse chiesto a Bolsonaro di bandire Huawei e 5G. Lo stesso giorno Bolsonaro ha proposto all’Argentina una moneta unica.

Per le batterie cinesi e tedeschi sono in competizione, come è noto. Quindi, l’Europa è anche in competizione con la Cina, come con gli Usa per proteggere il proprio interesse.

Non si vede perché Renault avrebbe dovuto rinunciare a Nissan, con cui ha tensioni dallo scorso novembre perché Nissan sospettava un tentativo di fusione a sua insaputa da parte del Ceo Ghosn, che è stato arrestato. I francesi vogliono ricucire con Nissan, difficilmente Nissan avrebbe accettato una fusione con Fca fatta alle sue spalle. Pare l’Italia abbia perso il polso della realtà a parlare di nazionalismo, quando si tratta di industria.

Soprattutto è preoccupante che la politica italiana non si occupi del destino del proprio capitalismo e non si renda conto della deindustrializzazione del Paese, dovuta all’estinzione del capitalismo familiare. Se i nostri industriali hanno venduto a stranieri è perché, come ha concluso Paolo Bricco sul Sole 24 Ore, hanno preferito diventare azionisti o investitori.

Certamente, l’Italia ha caratteristiche fiscali, giudiziarie, legislative, da spaventare gli imprenditori, ma di questo dovrebbe occuparsi la politica e dovremmo prendere esempio dalla Francia e dalla Germania, che difendono le proprie industrie e il lavoro, senza gridare contro la perfida Europa.

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