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Perché la Francia deve restare in guardia sull’Islam politico

Che cosa si è detto dell'Islam politico al Senato francese. L'articolo di Giuseppe Gagliano

 

Il 4 febbraio presso il Senato francese Youssef Chiheb, uno dei maggiori studiosi di Islam politico oltre che componente del prestigioso Centre Français de recherche sur le renseignement (Cf2r) diretto da Eric Denécé, ha sottolineato con estrema chiarezza e nitidezza in cosa consiste la pericolosità dell’Islam politico.

In prima battuta senza tanti giri di frasi, Chiheb ha sottolineato che la presenza dell’Islam politico in Francia rappresenta de facto una minaccia ai valori della Repubblica francese e che certamente è una ideologia in espansione.

In secondo luogo parte della sua pericolosità è rappresentata dal fatto che l’Islam politico è sì compatibile con tutti i sistemi politico ma non è compatibile con il laicismo.

In terzo luogo la democrazia — data la sua porosità e la sua tolleranza — per l’Islam politico è uno strumento per accedere al potere e, anche se non legittima la violenza politica, non la condanna nemmeno. Non dimentichiamoci infatti che l’Islam politico usa il proselitismo, promuove l’entrismo, penetra negli organismi intermedi, coopta i leader politici emergenti nelle università, senza condannare la radicalizzazione islamista violenta. A tale proposito la presenza dell’Islam politico è individuabile nei campus situati nel cuore di zone in grande difficoltà (Villetaneuse, Bobigny, Créteil, Saint Denis, Nanterre, Saint Quentin en Yvelines…). Per quanto concerne l’entrismo, questo si concretizza in un determinato Codice di abbigliamento per ragazze e ragazzi, nella introduzione di elementi di linguaggio politico o teologico nella lingua araba islamizzata o reislamizzata, nelle usanze come il Ramadan o addirittura l’uso clandestino di aule “requisite” per preghiere collettive.

Fra queste pratiche certamente la più pericolo per una Repubblica laica è l’uso del jilbab o l’hijab (vestito di colore nero che copre tutto il corpo, a volte indossato con i guanti) che è per l’analista francese inaccettabile e scioccante persino per l’insegnante musulmano laico.

D’altra parte l’Islam politico non solo rappresenta l’apice di determinate ideologie come il salafismo, il wahhabismo o il takfirismo, ma proprio per questo promuove il comunitarismo, l’identità ma soprattutto la segregazione sociale. In questo senso l’Islam politico è una forma di separatismo territoriale. Non rivendica un territorio, ma l’esercizio del potere sui territori in questione. Infatti nell’Islam politico prevale la concezione della Comunità (Al Umma), senza confini fisici, a scapito degli Stati-nazione delimitati nel tempo, nello spazio, nella storia, nella lingua e nella cultura.

In quarto luogo l’Islam politico è un’ideologia e un programma politico di governo già sperimentato e attuato in Egitto, Tunisia, Algeria e soprattutto in Turchia, dopo la presa del potere da parte del presidente Erdogan. Il Marocco costituisce invece un’eccezione, nonostante la maggioranza di governo sia guidata dal Partito per la giustizia e lo sviluppo (PJD).

A tale proposito — per quanto concerne la Francia — sarebbe necessario da un lato produrre un pacifico contro-discorso scientifico, politico e sociale, lontano da qualsiasi strumentalizzazione e dall’altro lato, sul piano politico, ispirarsi al modello di cooperazione franco-marocchino che si è dimostrato valido, sia nella co-gestione del culto — attraverso la formazione degli imam all’interno dell’Istituto Mohamed VI — sia attraverso la cooperazione in materia giudiziaria e di intelligence nel contesto della lotta al terrorismo.

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