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Covid Germania

Perché il miracolo economico tedesco si avvia a una brusca fine? La domanda di Der Spiegel

Dibattito mediatico tra intellettuali ed economisti in Germania. L'articolo di Roberto Giardina

Gli anni grassi sono finiti, annuncia in copertina l’ultimo numero di Der Spiegel, Die fetten Jahre sind vorbei, senza punto interrogativo. L’aquila tedesca cerca di scolarsi l’ultimo bicchiere di champagne ma la bottiglia è tristemente vuota. Il sottotitolo si chiede: perché il miracolo economico tedesco si avvia a una brusca fine? «Auslaufmodell Deutschland», si aggiunge nell’interno, il modello Germania è superato, invecchiato.

Ha ragione la rivista di Amburgo o Die Welt, che rimprovera ai tedeschi di essere troppo pessimisti. Un vizio nazionale voler vedere sempre nero, e la bottiglia mezzo vuota. Secondo un sondaggio, la fiducia dei consumatori vede i tedeschi al sesto posto, al primo si trova l’India, noi ci piazziamo in decima posizione. Nonostante il mercato del lavoro in espansione, e l’aumento dei salari, un’inflazione quasi inesistente, meno della metà è ottimista. Per la verità i dati tedeschi sarebbero invidiabili per tutti i paesi europei, per non parlare del nostro. Gli anni grassi non sono stati sette, come vorrebbe la Bibbia, ma una decina, la Goldene Dekade, il decennio d’oro sempre per lo Spiegel, e una pausa per ritirare il fiato era scontata. Prevedibile e non brusca. Ma si tratta di un intervallo o dell’inizio dei fatidici sette anni magri?

I disoccupati continuano a scendere, al minimo storico dalla riunificazione (1990), erano il 7,8% dieci anni fa, oggi sono il 5,2, crescono anche gli occupati, mai così tanti. Il Pil scende dal 5,6 nel 2009, l’anno della crisi, ma era all’1,5 l’anno scorso, e quest’anno anche per i più pessimisti dovrebbe crescere dell’uno. Si rallenta, ma siamo a livelli elevatissimi. Le grandi imprese sono in difficoltà per colpevole mania di gigantismo: per diventare la prima al mondo, la Deutsche Bank è in crisi, le azioni valevano oltre 100 euro cinque anni fa, oggi sono sotto i 7 euro. La Bayer comprando la Monsanto è sotto accusa e perde colpi, senza dimenticare la Vw che, sempre per conquistare il primato mondiale, ha truffato sui gas di scarico.

L’industria vive di export, ma gli ordini calano, perché la Cina e l’India rallentano, e gli Usa continuano a imporre le sanzioni contro la Russia di Putin. «Il Made in Germany ha perso la sua magia», dichiara Wolfgang Reitzle, a lungo a capo della Bmw, e oggi nel consiglio di sorveglianza della Linde. «Molto da noi funziona male o troppo lentamente», aggiunge. Eppure, l’export superò di poco i 1.146 miliardi di euro nel 2009, e l’anno scorso ha toccato i 1.607 miliardi. Ma c’è poca spinta innovativa: i brevetti sono stati nell’ultimo anno appena 176, contro i 526 degli Usa, e i 1.306 della Cina. Nessuna azienda tedesca è tra le prime dieci al mondo, la Sap è la prima in classifica al 15esimo posto.

Al termine del reportage, lo Spiegel chiede l’opinione di due economisti schierati su fronti opposti. «Siamo più poveri di quanto crediamo», sentenzia Daniel Stelter, 54 anni, autore del saggio Das Märchen vom reichen Land, la favola di un paese ricco. Il boom apparente degli anni scorsi, spiega, ha arricchito solo gli azionisti di alcune società, per la stragrande maggioranza dei tedeschi sono rimaste le briciole. Peter Bofinger, 64 anni, professore di economia all’Università di Würzburg, e fino a poco tempo fa consigliere del governo, la pensa piuttosto come Die Welt: «Volete solo provocare panico… è lei, caro Stelter, a raccontare delle favole, tra le nazioni industriali siamo al secondo posto dietro gli Stati Uniti e, a grande distacco, seguono Francia, Regno Unito, Giappone e Italia. La Germania è uno dei paesi più ricchi al mondo». Dopo gli anni grassi non verranno sette anni di povertà.

(articolo tratto da Italia Oggi)

 

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