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Capi

Non ci sono più i capi di una volta?

Il Bloc Notes di Michele Magno

Perché nel passaggio di secolo, in forma prima silenziosa, poi via via più rumorosa e eclatante, la sfiducia nei partiti è esplosa così clamorosamente? Almeno in Italia, la risposta che forse ha ricevuto più credito è anche la più semplice: la “casta” è diventata insopportabile perché i leader sono peggiorati. Come si suol dire, “non ci sono più i capi di una volta”. Le élite non sono più, come scriveva Vilfredo Pareto, classi elette composte da coloro che eccellono nei vari campi, compreso quello dell’arte di governare (cfr. Marco Revelli, “Finale di partito”, Einaudi, 2013).

Nell’analisi di Roberto Michels era scontato che i capi fossero migliori della massa. Soprattutto “nei partiti del proletariato — scriveva nel 1911 — in fatto di cultura, i duci sono di gran lunga superiori all’esercito”. Come si legge nella “Sociologia del partito politico” (il Mulino, 1966), “la gratitudine delle masse verso personalità che in nome loro parlano e scrivono, che si sono create la fama di difensori e consiglieri del popolo, […] è naturale e spesso trascende in vera e propria tendenza delle masse alla venerazione dei capi”.

Nulla di tutto ciò sembra oggi possibile. Le leadership di partito attuali sono ampiamente screditate, tanto che l’unica rivendicazione unanime che si leva “dal basso” ogni qualvolta si parla di riforma elettorale, è quella di sottrarre alle segreterie di partito il potere di decidere le candidature. La folla di funzionari e di quadri intermedi che occupa gli apparati, così come la moltitudine dei parlamentari, sono spesso considerate come esempio di impreparazione, di cattiva conoscenza dei problemi, di inefficienza e parassitismo. Sono inoltre bollate come venali e affaristiche, marcate dal vizio del privilegio e da uno spirito corporativo, oltre che da un diffuso servilismo.

Tuttavia, occorrerebbe capire per quale ragione oggi i meccanismi della democrazia rappresentativa, anziché i migliori, selezionino i peggiori. Su questo nodo esiste una letteratura sterminata, che attribuisce alle trasformazioni di sistema — consumatesi nei decenni terminali del Novecento — le ragioni del degrado della rappresentanza politica nei regimi democratici. In un suo fondamentale saggio del 1974, “Il declino dell’uomo pubblico” (Bruno Mondadori, 2006), Richard Sennet poneva all’origine della progressiva erosione della vita pubblica, a cui assistiamo da tempo, una vera e propria apocalisse culturale, segnata dall’emergere di un Io ipertrofico e insieme vuoto, che tende a proiettare sullo spazio pubblico la propria soggettività narcisistica: sentimenti, emozioni, pulsioni, desideri di successo e di visibilità.

Lo stesso spazio pubblico viene così invaso da linguaggi e stili narrativi di una soap opera, in un continuo, banale e seriale disvelamento di sé ormai scevro da ogni mistero o pudore. È quanto un altro acuto indagatore della “cultura del narcisismo”, Christopher Lasch, ha sintetizzato nel saggio “La cultura del narcisismo” (Bompiani, 2001) con l’espressione “ribellione delle élite”, attribuendo alle minoranze dominanti gli stessi vizi e le stesse debolezze che nel 1930 un altro interprete della crisi della modernità, Ortega y Gasset, aveva attribuito a quelli che dovrebbero costituire i loro rappresentati (“La ribellione delle masse”, SE Editore, 2001).

 

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Secondo Max Weber, la forza del carisma sta nell’ascendenza divina che — si tratti di re o profeti — viene solitamente associata al capo, e nella natura messianica del suo messaggio. Il carisma nasce da uno stato di grazia, unito quasi sempre a una disponibilità al sacrificio come occasione palingenetica. Il capo carismatico promette per sua natura un nuovo inizio, e in questa promessa sta la sua capacità di trascinare le folle (cfr. “Il leader”, Castelvecchi, 2016).

Quando il grande sociologo tedesco scriveva le sue tesi, non c’era ancora la radio come canale di intrattenimento. Il cinema faceva i suoi primi passi, muti. E la televisione non era neppure immaginabile. Tuttavia, non aveva sottovalutato le potenzialità del potere carismatico. Con ciò presagendo genialmente l’irruzione, dopo pochi anni in tutta Europa, di leader visionari e magnetici. Per quanto essi facessero largo uso della propaganda di stampa e, da un certo momento in avanti, della radio, il loro appeal sulle folle era mediato soprattutto dagli assembramenti fisici, dalle “adunate oceaniche”.

Che cosa sarebbe successo — domanderà una fortunata pubblicità televisiva a proposito di Gandhi — se i leader carismatici avessero avuto a disposizione i moderni mezzi di comunicazione? Forse meno di quanto si possa immaginare. Perché, come i nuovi videoleader avrebbero imparato a proprie spese, i media hanno la capacità di rendere celebre in tempi rapidissimi un nuovo personaggio e il suo messaggio; ma, in tempi altrettanto rapidissimi, possono logorarlo e distruggerlo. Beninteso, senza nulla togliere al fatto che la televisione e i social media hanno trasformato le mille piazze reali di un Paese in un’unica piazza virtuale, con una capacità di fuoco comunicativa praticamente illimitata. Innovazione che ha cambiato anche la natura del messaggio — e del linguaggio — con cui i nuovi leader si rivolgono alla propria audience (cfr. Mauro Calise, “Fuorigioco. La sinistra contro i suoi leader”, Laterza, 2013).

 

 

 

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