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Musk, le armi e la rivoluzione tecnologica

Il corsivo di Teo Dalavecuras

 

Stamani Massimo Gramellini (“Il caffè di Gramellini”) si è preso una pausa nella sua lunga impresa di rieducazione sentimentale degli italiani. Lo ha fatto nel solo modo possibile in una rubrica quotidiana di poche righe: ha preso di mira un uomo singolo, assai rappresentativo peraltro, il “signor Elon Musk”, ma ha affrontato uno dei massimi problemi di questi nostri tempi distratti.

Trascrivo le prime righe: “Anche il meno ispirato dei poeti mi emoziona più del signor Elon Musk, fautore e principale beneficiario della autentica catastrofe della nostra epoca: la sostituzione dell’umanità con la tecnologia e il convincimento, per molti aberrante, che questa sostituzione rappresenti un progresso”.

È fin troppo vero e perfino ovvio, ma raramente si trova qualcuno che abbia il coraggio di affermarlo pubblicamente. Da svariati decenni viviamo tutti nel terrore di rimanere indietro nella irresistibile marcia del progresso tecnologico e nessuno si permette di dubitare che si debba subito tradurre in fatti concreti della nostra vita quotidiana qualsiasi novità la tecnologia di oggi renda possibile, senza perdersi in dubbi su effetti non voluti o non prevedibili: questo è il progresso e il progresso è indiscutibilmente buono (anche se il termine, di per sé, si riferisce sia a processi benefici, sia a processi malefici, distruttivi o deformanti, sia a processi inizialmente benefici degenerati nel loro contrario per effetto di un uso esagerato).

Mi aspettavo un commento sull’ultima strage americana, i 19 alunni e i due insegnanti ammazzati da un giovane nel Texas ma, forse preterintenzionalmente, l’affermazione singolarmente esplicita di Gramellini (“sostituzione dell’umanità con la tecnologia”) riguarda anche questi eventi.

Appena si è diffusa la notizia è partita, per riflesso condizionato, la ricorrente denuncia della lobby americana delle armi da fuoco che, opponendosi a qualsiasi legislazione limitatrice del commercio di questi mortali gingilli è oggettivamente responsabile di questo rosario di stragi  (non solo in America ma anche in altri paesi, dai 77 morti nella Norvegia di Anders Behring Breivik ai 51 della Nuova Zelanda di Brenton Tarrant).

Non c’è dubbio che senza la possibilità di acquistare appropriate armi da fuoco le stragi non sarebbero possibili con quelle modalità, così come se fosse abolita la circolazione automobilistica non ci sarebbero più morti per incidenti stradali.

Ci sono, però, anche altre correlazioni possibili. In tutte queste stragi, per quel che ci è dato sapere, si registra un’intensa frequentazione, da parte degli autori, dei social network: si legge che anche lo sciagurato responsabile dell’ultima carneficina in Texas aveva anticipato il suo piano su Facebook.

Ora, a nessuno verrà in mente di reclamare la chiusura di Facebook per questa ragione (e chi fosse tentato si guarderebbe dal farlo consapevole del rischio di linciaggio non mediatico ma anche fisico). Resta il fatto, però, che decenni di uso smodato prima della Tv e poi dei videogiochi e delle piattaforme “social” (in realtà “asocial”), combinato con tecniche informatiche dirette a produrre vera e propria dipendenza, ha generato una crescente incapacità di distinguere il mondo tangibile da quello virtuale e forse è legittimo chiedersi se questa trasformazione antropologica che interessa le ultime generazioni sia totalmente estranea a fenomeni come le stragi sostanzialmente “gratuite” e altre manifestazioni degenerative.

Che poi le ricchezze più favolose accumulate in questi anni, da Gates a Zuckerberg, da Musk a Bezos, tali da fare impallidire il tesoro di Mansa Musa imperatore del Mali, trovino origine nella “rivoluzione digitale”, è ovviamente solo una curiosa coincidenza.

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