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Giorgetti

Aldo Moro, le Br e gli americani

44 anni dalla morte di Moro. Il corsivo di Francesco Damato.

 

Anche nel quarantaquattresimo anniversario della sua tragica morte – ancora più tragica, come vedremo, di quanto molti hanno a lungo ritenuto credendo alle bugie dei brigatisti rossi che lo avevano assassinato il 9 maggio 1978 – si è provato da qualche parte a immaginare come Aldo Moro avrebbe reagito ai problemi e alle emergenze dei nostri tempi: lui che di emergenze aveva gestito da regista della Dc quella del 1976. Che era stata di ordine economico, politico e di sicurezza per il fenomeno del terrorismo, nero e poi anche rosso, affacciatosi in Italia con la strage di Piazza Fontana nel 1969.

L’ex senatore Marco Follini, già vice presidente del Consiglio con Silvio Berlusconi in sofferenza reciproca, durata peraltro meno di sei mesi, fra il 2 dicembre 2004 e il 15 aprile 2005, un democristiano doc che su Moro ha scritto recentemente un saggio toccante, non ha certamente avuto torto a rispondere così pochi giorni fa, in una intervista a chi gli chiedeva che cosa rimanesse oggi del leader da lui conosciuto e molto apprezzato: “Moro sarebbe fortemente a disagio perché tutta la sua costruzione politica era legata a un’idea che oggi non ha più libero corso in questo Paese. Moro era consapevole che la democrazia è il dialogo con gli altri e non il mettersi davanti allo specchio per mostrare i muscoli. Come dico nel mio libro, dal suo punto di vista la politica non era mai un evento. Era un processo. Era un arabesco, non una freccia”. Una freccia a dir poco, aggiungerei pensando all’immagine di “sangue e merda” coniata tanti anni fa dall’ex ministro socialista Rino Fornica.

Abituato a reagire alle più feroci critiche di volta in volta espresse nei suoi riguardi su qualche giornale ostile al centrosinistra – da lui perseguito da segretario della Dc e infine realizzato in modo organico da presidente del Consiglio nel 1963 – chiedendo al suo fidato portavoce Corrado Guerzoni di fare escludere il feroce giornale di turno dalla “mazzetta” dei quotidiani che gli veniva recapitata a casa di prima mattina, Moro avrebbe finito oggi, in qualsiasi postazione politica o istituzionale gli fosse capitato di trovarsi, senza più giornali da sfogliare.

Nonostante la circostanza reale ricordata da Follini di un uomo che “non amava gli americani” ricambiato, ma “a Washington con un punto di ostilità in più”, risultatagli forse fatale nella drammatica prigionia nell’appartamento in cui i sequestratori lo tennero rinchiuso prima di ucciderlo, mi permetto di presumere che Moro non avrebbe risparmiato oggi agli americani la “comprensione” ripetutamente espressa loro da presidente del Consiglio all’epoca della guerra in Vietnam. Che russi e cinesi da una parte e americani dall’altra, ma questi ultimi direttamente, con tanto di truppe al Sud e bombardamenti al Nord, condussero a lungo: altro che l’Ucraina di oggi, dove di truppe straniere ci sono solo quelle russe di invasione e occupazione contrastate dagli aggrediti con aiuti anche militari degli Stati Uniti e altri paesi occidentali. Fra i quali c’è l’Italia di Sergio Mattarella al Quirinale, moroteo come il padre Bernardo e il fratello Piersanti, e del tecnico Mario Draghi a Palazzo Chigi, forte più del prestigio internazionale guadagnatosi soprattutto alla presidenza della Banca Centrale Europea che di un’appartenenza politica, per quanto configurabile come un liberalsocialista decisamente atlantista.

Vi avevo promesso all’inizio di rivelarvi le circostanze della morte di Moro ancora più tragiche di quelle emerse dalle bugie dei suoi assassini. Che dissero di averlo trattato con rispetto anche nella morte, affascinati a loro modo dalla personalità che avevano sequestrato sterminandone la scorta solo per esigenze, diciamo così, di lavoro.

Leggete qui ciò che delle modalità della morte dell’ostaggio accertate dall’ultima commissione parlamentare d’inchiesta ha recentemente raccontato l’ex ministro del Pd Giuseppe Fioroni, che l’ha presieduta: “Abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione”. Non un colpo di grazia? chiede l’intervistatore in base al racconto appunto dei brigatisti rossi. “Al contrario. Colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia perché non morisse”, rivela Fioroni concludendo: “Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse”, più ancora degli agenti della scorta freddati 55 giorni prima nella mattanza di via Fani, a Roma.

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