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Perché hanno ragione i realisti e torto gli idealisti su Ue, Nato, Trump e duo Merkel-Macron

L’analisi di Lodovico Festa, editorialista e saggista L’Unione europea sempre più sbandata sotto la leadership mediocre e bottegaia di Angela Merkel ed Emmanuee Macron, la Nato sotto processo a causa di chi non vuol pagare economicamente e politicamente i costi della propria sicurezza, il Wto contestato da Washington per la mancanza di una linea di…

L’Unione europea sempre più sbandata sotto la leadership mediocre e bottegaia di Angela Merkel ed Emmanuee Macron, la Nato sotto processo a causa di chi non vuol pagare economicamente e politicamente i costi della propria sicurezza, il Wto contestato da Washington per la mancanza di una linea di comportamento fair sui commerci globali. L’ordine liberale che ha regolato una parte rilevante del Pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale appare sotto tensione. Sulla sua tenuta si interrogano i realisti e gli idealisti: i primi hanno come predecessore fondamentale quel Samuel P. Huntington che già nel 1993 su Foreign affairs prevedeva con un suo articolo su “The clash of civilizations” una fase di disordine globale dopo che la fine della divisione del mondo in due blocchi aveva incrinato il punto di equilibrio raggiunto con Yalta. I secondi preferiscono concentrarsi sui principi e criticare chi se ne scosta.

Negli scorsi giorni un intervento realistico è stato quella di Angelo Panebianco sul Corriere della sera che con sia pure molta timidezza ha ricordato come il processo di integrazione europea sia nato innanzi tutto grazie agli Stati Uniti, con la sicurezza continentale garantita dall’Alleanza atlantica e la ripresa organizzata dal piano Marshall: e ha concluso la sua analisi considerando come un destino unitario per il Vecchio continente appaia problematico senza la sponda degli Stati Uniti.

Molto idealistico invece l’editoriale di Martin Wolf sul Financial Times che dell’”ordine liberale” costruito dopo il Secondo dopoguerra sottolinea soprattutto le coordinate derivate dalle esperienze della fine dell’Ottocento quando la Gran Bretagna non riuscì a trasformare la propria egemonia in un sistema globale regolato da principi. E come poi questo errore si ripetè con la fine della Prima guerra mondiale, e venne alfine rimediato solo dopo la Seconda guerra mondiale grazie a istituzioni che garantirono un assetto regolato nei rapporti tra le differenti economie capitalistiche.

Wolf è un opinionista di grande valore e le sue analisi arricchiscono sempre chi le legge. Però mi pare che trascuri troppo le condizioni politiche nelle quali si è costruito e si può ricostruire un “ordine” del tipo di quello a cui si riferisce: di fatto lo scontro con l’Unione sovietica è stato l’elemento decisivo nella definizione delle istituzioni di cui Wolf tratta. E in parte lo è stato il processo di decolonializzazione parallelo, assecondato da una Washnigton che soggettivamente contrastava (isolando in un certo momento persino John M. Keynes) gli ultimi elementi di egemonia britannica. In seguito i vari processi economici che hanno accompagnato e corretto l’”ordine liberale” (la fine del gold standard, il decollo dei petrodollari, la globalizzazione della finanza, l’esplosione dell’economia digitale, l’apertura del Wto ai cinesi) sono sempre stati condizionati non solo dai mercati e dai “principi” ma anche molto concretamente dalla politica.
Per il celebre editorialista del Financial Times le cose invece sarebbero assai più semplici: Donald Trump si comporterebbe come un lord Palmerston incapace di considerare a sufficienza i principi ormai definitivamente acquisiti di un sistema che regga lo sviluppo globale, si mostrerebbe indifferente alle alleanze necessarie a sostenerlo, al fondo non sarebbe che un classico isolazionista.

Sono tesi che per molti versi non mi convincono: innanzi tutto quel che mi sembra essersi comportato come un vero e proprio Lord Palmerston è stato Barack Obama. Ha destabilizzato alleati fondamentali (l’Italia, la Turchia, l’Arabia Saudita, l’Egitto Israele, le Filippine, il Pakistan come Londra fece con la Russia e Vienna nell’Ottocento), non ha compreso come la Cina, abbandonando la linea integrazionista di Deng Xiao Ping stia diventando il principale competitore globale cambiando così le regole dei giochi globali (esattamente come è successo nell’800 al Regno Unito che non valutò adeguatamente gli effetti dell’unificazione della Germania), ha ritenuto come l’Unione europea fosse un solido elemento centrale nella costruzione di una stabilità globale, esattamente come Londra aveva fatto con un Impero ottomano proprio mentre questo era avviato al declino.

Si può controbattere a questa analisi ricordando come Obama almeno non abbia toccato le istituzioni dell’ordine liberale post ’45, scelta che sta perseguendo invece il suo successore. E qui ci soccorre il pensiero realistico: le istituzioni sovranazionali non possono funzionare senza una politica che soggettivamente assicura gli equilibri necessari per farle esistere. Anche la sola Pechino che cambia linea e passa da quella denghista che cercava un’integrazione concordata nell’ordine globale con gli Stati Uniti, a una competixione egemonistica (nel Mar cinese del sud, nell’Oceano indiano, nell’Oceano pacifico, sulla via della Seta, in Africa), modifica tutto il quadro internazionale con buona pace dei principi di Wolf. E chi si sottrae a una seria riflessione su questo quadro non si comporta come un vero alleato bensì come un ubriaco nostalgico di un ordine di cui stanno crollando le basi.

Per ricostruire questo ordine rivitalizzando i principi liberali giustamente lodati dal Financial Times, c’è bisogno di una nuova soggettività con buona pace dei cultori della tecnocrazia ben integrati con i sacerdoti della dittatura dei desideri (un vero revival ottocentesco di positivismo specularmente unito a nietzschianesimo). E la necessaria nuova soggettività può poggiare solo su stati nazionali legittimati a fare e magari rinnovare (nel nuovo contesto) scelte di cessione della propria sovranità. Comprendiamo come questo dato di fatto spiaccia ai vari picchiatori del pensiero unico, ai chierici della politically correctness, ai vari cantori del nuovo panglossismo espressi dal giornalista collettivo, all’internazionale degli idiot savant, degli idioti saccenti che considerano il popolo bue, fesso, cretino, scemo, abbindolabile dalle prime fake news che vengono diffuse e fanno “percepire” malesseri e paure ingiustificate.

La crisi della discussione pubblica determinata dal variopinto caravanserraglio prima descritto (anche questa realtà è in sintonia con le tendenze ottocentesche tese ad affermare l’ineluttabilità del progresso, a criticare il parlamentarismo, ad opporsi – fino ad arrivare a considerare utili i massacri del ‘14-’18- ai “populisti di allora” cioè i movimenti politici cristiani e socialisti) rende tutto più difficile e costringe chi contesta le insensate pretese del”caravanserraglio” al monopolio della “verità” a un eccesso di rutti (e tweet) per farsi sentire. Eppure proprio se si vuole ridare vitalità ai preziosi principi liberali di un nuovo ordine mondiale predicati da Wolf, bisogna guardare in faccia la realtà e rendersi conto che non esiste un assetto postwestafaliano nelle relazioni tra stati, e negare questa realtà effettuale significa solo dare mano libera ai sovranisti bulletti commerciali franco-tedeschi, ai grandi sovranisti bulli commerciali (e sempre più militari) cinesi, nonché alle tendenze jihadiste che hanno il loro cuore a Teheran (e oggi grazie a Obama qualche ascolto ad Ankara).

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