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Il mercenario, il (secondo) mestiere più antico del mondo. Parte seconda

Il Bloc Notes di Michele Magno

Bernardino da Siena nelle sue prediche aveva paragonato i mercenari a “locuste che saltano qui e là”. Ma il frate teologo non poteva immaginare che, trentadue anni dopo la sua morte, l’esercito del granduca di Borgogna, Carlo il Temerario, sarebbe stato distrutto da “locuste” svizzere. Il 22 giugno 1476, a Morat diciottomila borgognoni vengono trafitti dalle picche e dalle alabarde dei mercenari elvetici. Una carneficina che inaugura l’era della supremazia dei fanti, mentre decreta il ruolo declinante dei cavalieri. D’ora in avanti, i “nuovi romani” -come li chiamerà Machiavelli- calati dai cantoni di Uri, Unterwalden e Schwyz faranno tremare ogni angolo del Vecchio continente per la loro ferocia belluina. Serviranno i re francesi Carlo VIII e Luigi XII nelle due campagne italiane (1494-1504), successivamente si uniranno a papa Giulio II (sarà lui a creare nel 1506 il corpo delle guardie svizzere), e nel 1513 si scontreranno a Novara con i loro più acerrimi antagonisti, i lanzichenecchi.

I “landskenecht” luterani erano fantaccini delle pianure voluti dall’imperatore Massimiliano I d’Asburgo, proprio in contrapposizione ai “montani bestiales” svizzeri. Tanto crudeli quanto corruttibili, le atrocità di cui si erano macchiati nel “sacco di Roma” (1527) faranno dire ai francesi: “Un lansquenet repoussé du paradis ne peut avoir accès en enfer parce qu’il ferait peur au diable” (Un lanzichenecco cacciato dal paradiso non può entrare nell’inferno perché farebbe paura al diavolo). A Novara, comunque, i lanzichenecchi di Luigi XII saranno travolti dagli svizzeri del duca di Milano Massimiliano Sforza. Dovranno attendere due anni per prendersi la rivincita. Schierati a Marignano dal nuovo re di Francia Francesco I, il 13 e 14 agosto 1515 stermineranno gli odiati rivali in un combattimento che prepara il tracollo della potenza militare elvetica. Grazie alla “Pace Perpetua” siglata nel 1516, che regolava le relazioni tra Francia e Svizzera, la libertà di devastare, di rapinare e di uccidere viene soppressa. I terribili discendenti degli Urani saranno costretti a essere più disciplinati e più rispettabili.

Bande di soldati professionisti, guidate da capi con forte personalità, combattenti per la paga e per il bottino, ma non completamente indifferenti al richiamo della gloria e dell’onore: questo modello di “libere compagnie” riapparirà in una forma o nell’altra anche nell’età moderna. Ne sono un esempio le “Oche Bianche”, formate dalla piccola nobiltà cattolica irlandese che, dopo la battaglia sulle rive del fiume Boyne (luglio 1690), si rifiuta di prestare giuramento al re protestante Guglielmo III d’Orange, arruolandosi negli eserciti di mezza Europa. Per altro verso, Federico Guglielmo I di Hohenzollern (1688-1740) cercava armigeri di qualsiasi nazionalità, ma alti non meno di un metro e novanta, per le sue truppe d’élite. Sotto Federico il Grande e i suoi successori solo un terzo dell’esercito sarà composto da cittadini prussiani. E minuscole armate mercenarie saranno protagoniste delle incessanti scaramucce tra Stati europei seguite alla guerra dei Trent’anni (1618-1648).

La stessa Inghilterra era quasi priva di un esercito regolare. Sia nella guerra di Successione spagnola (1701-1714) che in quella dei Sette anni contro la Francia (1756-1763), gli olandesi e gli austriaci mettevano i soldati, la Corona l’oro e i generali. Peraltro, Robert Clive disponeva in India di un solo reggimento di fucilieri britannici appoggiato da nativi sepoy. Nel 1775, quando scatta la ribellione degli americani a Lexington e a Bunker Hill, il governo di lord North invia nelle colonie un contingente di trentamila mercenari tedeschi, forniti dal duca di Brunswick e dal langravio dell’Assia-Kassel (dopo una estenuante trattativa sul premio d’ingaggio). Il duca di Brunswick, Carlo, era un bancarottiere che aveva dilapidato tutto il suo patrimonio in ballerine francesi e nel suo piccolo ma efficiente esercito. Il langravio dell’Assia-Kassel era un villano, ma un villano colto: aveva abolito la tortura ed era in corrispondenza con Voltaire. Egli era particolarmente fiero di come si presentavano i suoi ussari, splendidamente abbigliati con giacchette e dolmann azzurro-cielo e bianco, messi in risalto dai calzoni rossi. Gli ufficiali portavano elmetti d’argento adorni con un ciuffo di penne d’airone.

Purtroppo, le loro prestazioni a Fort Washington, a Redbush e a Yorktown non corrisponderanno al loro magnifico aspetto. Per gli eredi dei lanzichenecchi sarà una disfatta. Molti diserteranno, un gran numero si arrenderà a Saratoga Springs. Kant e Goethe condanneranno indignati il commercio dei mercenari. In un memorabile discorso alla Camera dei Pari (20 novembre 1777), il monito di lord Chatham sarà sferzante: “Signori, voi non potete conquistare l’America […]. Potete aumentare ogni spesa, barattare con ogni piccolo principe tedesco, di quelli che vendono i loro sudditi per mandarli al macello per una potenza straniera. I vostri sforzi saranno sempre vani e impotenti, e proprio per quell’aiuto dei mercenari su cui fate conto: perché suscita un odio incurabile. Se fossi un americano come sono un inglese, con i soldati stranieri che invadono il mio paese non deporrei mai le armi”.

L’odio di cui parlava lord Chatham i sanculotti parigini lo riverseranno sulle guardie svizzere di Luigi XVI il 10 agosto 1792, nell’assalto al Palazzo delle Tuileries. Con la loro strage, sembra chiudersi, e non soltanto simbolicamente, la stagione del mercenariato. Non sarà così. Ma con la Rivoluzione del 1789 si fa comunque strada il principio secondo cui ogni cittadino era tenuto a impugnare le armi per difendere la propria patria. Nel 1798 il generale Jean-Baptiste Jourdan propone una legge che introduceva in Francia la coscrizione generale, sconosciuta in Europa fin dal tramonto del feudalesimo e in Gran Bretagna dalla scomparsa del “fyrd”, la milizia popolare dei re sassoni. Ma sarà la guerra franco-prussiana del 1870-1871 a sancire il primato dell’esercito di coscritti con una breve ferma (quello di von Moltke) sull’esercito di professionisti con un lungo periodo di servizio (quello di Mac-Mahon). Poco prima il suo artefice politico, Otto von Bismarck, aveva fatto approvare dalla Dieta una norma che vietava tassativamente l’utilizzo di mercenari nell’esercito guglielmino.

Nell’Europa novecentesca il divieto bismarckiano diventerà una sorta di imperativo categorico. Con l’eccezione della Spagna di Francisco Franco, solo nelle guerre coloniali le potenze continentali continueranno a servirsi di truppe mercenarie. Le origini di quelle più celebrate si possono far risalire ai contadini della Waldstätte. Perché i reggimenti svizzeri, dopo l’interludio rivoluzionario, erano tornati sotto l’egida della Francia con la Restaurazione del 1814. Incorporati nell’esercito borbonico, vengono sciolti nel gennaio 1830. Ma salito al trono Luigi Filippo, il 9 marzo 1831 il maresciallo Soult -ministro della Guerra- firma l’atto di nascita di “una legione di stranieri per il servizio al di fuori della Francia”. Nel giugno del 1835 la Legione straniera viene “affittata” alla regina Cristina di Spagna. Nel 1837 distruggerà nella battaglia di Barbastro le milizie mercenarie di Don Carlos, il rivale di Cristina.

Inizia qui la mitologia delle brigate multietniche create dal colonnello Joseph Bernelle. L’alone di eroismo che le circondava da oltre un secolo si offuscherà nel 1954 a Dien Bien Phu, dove i legionari francesi verranno sconfitti dalle forze nazionaliste indocinesi del generale Giap. “Mon Légionnaire”, canterà Edith Piaf con voce strozzata. Sarà il dramma di un popolo intero, recitato di fronte al mondo con patriottico decoro.

“Soldat qui sert à prix d’argent un gouvernement étranger”: è la definizione di mercenario che si trova nel dizionario Larousse. È sicuramente accettabile per i condottieri medievali, i lanzichenecchi e le lance svizzere, i legionari francesi e i gurkha indiani, gli ufficiali britannici della Legione araba in Giordania e per le bande degli “Affreux” (“Atroci”) nell’Africa nera. Ma non si adatta a capi mercenari -decisivi nella guerra dei Trent’anni- come il boemo Albrecht von Wallenstein o il belga Johann Tserclaes, conte di Tilly. Perché non erano pagati da un governo straniero, ma dal loro imperatore Ferdinando II. E non si addice nemmeno ai sikh o ai rajput della dominazione inglese in India, perché -diversamente dai gurkha- erano sudditi di Sua Maestà. In altre parole, se un mercenario è sempre un soldato professionista, un soldato professionista non è necessariamente un mercenario. Si tratta di una sfumatura, ma di una sfumatura delicata sul piano etico.

La conclusione si impone da sé: é difficile definire con precisione cosa è un mercenario, poiché la sua figura è stata storicamente mutevole. Nella realtà feudale, il termine mercenario aveva un significato meramente descrittivo: il cavaliere aveva l’obbligo di servire,ma il sovrano non aveva l’obbligo di pagare. Con la formazione degli Stati nazionali, che tenderanno a esaltare le virtù patriottiche, il termine diventa spregiativo. E tuttavia si esporrà ugualmente a qualche confusione semantica, soprattutto quando entreranno in scena gli ideali umanitari e le “guerre giuste”. Seppure con una certa sfrontatezza, i mercenari che combattevano in Katanga negli anni Sessanta del secolo scorso si sentiranno legittimati a chiamare i caschi blu dell’Onu “les super-mercenaires”.

Nella “Anabasi”, Senofonte descrive così Clearco, il capo mercenario dei greci al soldo di Ciro il Giovane: “Avrebbe potuto vivere in pace senza subire alcun biasimo o offesa, ma scelse di fare la guerra. […] Avrebbe potuto avere denaro e sicurezza, ma volle guadagnarne di meno impegnandosi in una guerra. E poi gli piaceva spendere i soldi in guerra come un altro li può spendere in donne o in qualsiasi piacere. Tutto questo mostra quanto fosse devoto alla guerra”. I greci vedevano proprio in questa devozione alla guerra il tratto distintivo e moralmente non riprovevole del mercenario. Si rendevano però anche conto delle sue miserie, e non le tributavano l’ammirazione che avrebbe ricevuto nell’antica Scandinavia o nel Giappone feudale. Nel Medioevo cristiano, solo Bertrand de Bon, poeta occitano duecentesco amato da Nietzsche e Ezra Pound, ne tesserà un fervido elogio. Ma Dante, pur apprezzando i suoi versi, lo sistemerà all’Inferno tra i seminatori di discordia.

Dopo la fine del secondo conflitto mondiale, i paesi belligeranti erano pieni di soldati disoccupati, di sradicati, di avventurieri. Come sottolinea Marco Guidi nella postfazione al libro di Mockler, presto per loro si spalancherà un intero continente, l’Africa. L’Africa delle lotte per l’indipendenza, delle guerriglie tribali, degli interessi delle grandi compagnie minerarie, dello scontro tra Usa e Urss. In questo contesto, il Congo ex belga -con le sue immense ricchezze- diventa il teatro principale delle imprese mercenarie di Jean Schramme, Bob Denard, Mike Hoare, Siegfred Müller (che aveva combattuto con Hitler). Poi verrà il tempo degli “aiuti fraterni” dei paesi comunisti, Cuba in prima fila.

Le ultime guerre che vedono in azione gruppi mercenari saranno quelle dei Balcani. Spariscono i mercenari e appaiono i contractor, frutto del crollo del potere bianco in Rhodesia e in Sud Africa. Migliaia di appartenenti alle forze armate e ai corpi speciali di polizia si ritrovano senza lavoro e cominciano a infoltire i ranghi delle “Private Militay Companies”. Negli anni Novanta queste compagnie private di sicurezza nasceranno come funghi. I servizi resi al Pentagono dalla più nota, la Blackwater, rappresentano una delle voci più cospicue nel bilancio della Difesa statunitense. Ma i moderni contractor non vedono quasi mai un campo di battaglia. Sono soprattutto addestratori, piloti, esperti di tecnologie belliche, e sono richiestissimi in tutte le aree più a rischio del pianeta. È un mestiere che tira, insomma. Per convincersene, basta sfogliare ogni tanto il mensile “Soldier of Fortune”.

(2.fine; la prima parte si può leggere qui)

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