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Le Pen

Tutti i temi che divideranno Macron e Le Pen

Macron e Le Pen vanno al secondo turno delle presidenziali in Francia. Ecco di cosa si discute davvero dopo il primo turno. Fatti, curiosità e approfondimenti

 

Emmanuel Macron e Marine Le Pen sono in testa al primo turno delle elezioni presidenziali 2022. Al 96% dello spoglio delle schede, il presidente uscente ha raccolto il 27,60% dei voti, contro il 23,41% del suo avversario del Rassemblement National. (Redazione Start Magazine)

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“Il problema elettorale di Emmanuel Macron: troppo presidente, non abbastanza candidato”. Titolava così Politico alla vigilia del primo turno di votazioni delle presidenziali francesi vinte dall’attuale presidente. Macron paga il suo ingresso tardivo in campagna elettorale, solo a marzo, quando gli altri candidati dibattevano già da settimane. Da mesi.

Da presidente era concentrato a tentare vie diplomatiche con Mosca. E di fatto la sua campagna è decollata solo sabato 2 aprile, con un grande – e unico – meeting a La Défense.

Macron ha preso parte ad alcuni programmi sui principali canali televisivi francesi. Ma ha evitato i ripetuti inviti al dibattito, spingendo gli oppositori e i media ad accusarlo di eludere la concorrenza democratica.

Le Pen si è presentata come un’abile comunicatrice. Ha condotto campagne nel cuore della Francia e si è concentrata sulle questioni quotidiane, soprattutto l’aumento del costo della vita. I suoi viaggi non sono stati molto seguiti dalla stampa nazionale, ma hanno avuto una grande eco nei media locali.

Le ha fatto comodo. Evidenzia la discrepanza della narrativa di un Macron parigino, legato agli alti funzionari dell’amministrazione. Quasi “poco politico” in senso classico. Quello, insomma, che cinque anni fa festeggiava a porte chiuse coi suoi nella prestigiosa – e costosa – brasserie La Rotonde a Montparnasse. Un presidente considerato delle élite.

Mentre Le Pen si è dipinta come la “donna di Stato” che fa campagna nelle piccole città e nei villaggi. Nei mercati.

Una vittoria di Le Pen al round definitivo del 24 sarebbe un terremoto politico per la Francia e per l’Europa. “Sebbene negli ultimi anni abbia cercato di ammorbidire la sua immagine e di apparire più moderata, Le Pen e il suo partito hanno una lunga storia di xenofobia, politiche favorevoli a Putin ed euroscetticismo”, evidenzia Politico. È sensazione diffusa sulla stampa liberal.

Se Le Pen vincesse l’Eliseo, scrive Aldo Cazzullo sul Corsera, “sSarebbe un terremoto, non solo per la Francia. Sarebbe una grande vittoria di Vladimir Putin. Una sconfitta per Biden, Scholz, Draghi. E sarebbe la fine dell’Unione europea come l’abbiamo conosciuta”. A giudizio di via Solferino, “la figlia di Jean-Marie Le Pen non è cambiata: resta la populista, la sovranista, la nazionalista, l’anti-europeista di sempre”. Lo stesso giudizio di Emmanuel Macron, espressione per Marine Le Pen dell’élite dei mondialisti, dei globalisti, dei banchieri.

Soprattutto c’è l’ombra di Vladimir Putin. Riassume via Twitter Enrico Letta: “Se il 24 aprile fosse Le Pen, allora Putin potrebbe fermare i suoi carri armati. Avrebbe vinto. Sarebbe tornato nel cuore dell’Europa”.

Il cinguettio del segretario dem rimanda al suo altro twitter del 3 aprile. A urne aperte in Ungheria, Letta scrive: “Col fiato sospeso oggi, sperando in un miracolo nelle urne”.

Confida che Viktor Orbán, l’europeo più putiniano che ci sia, perda le elezioni. Il miracolo non è avvenuto. Orbán ha vinto le elezioni. Anzi: le ha stravinte.

Un pericolo per i valori liberal dell’Unione. Al potere dal 2010, ha stretto il laccio attorno a media, accademici e Ong. Ha limitato le libertà dei migranti e dei gay. Orbán è un autocrate. La sua base elettorale “è in gran parte ignorante, è rurale” (The New Yorker). Così dicono i liberal. Non lo sopportano: lo considerano un dittatore furbo, sottile, da XXIesimo secolo, ma un dittatore.

Cosa c’entra con le presidenziali francesi? Le Pen non ha mai governato. Il fatto è che ai francesi della liaison di Le Pen con Putin, oggi confermata con Orbán, importa meno del potere d’acquisto in crisi e della fiammata delle bollette.

La campagna di Macron, come quella di Orbán si è giocata anche in un dialogo-polemica con altri paesi europei “ani-sistema”, come la Polonia. Un esempio. Nei giorni scorsi, il leader dell’Eliseo ha replicato duramente alle critiche del capo del governo di Varsavia sui suoi colloqui telefonici con Putin, definendole infondate e scandalose e accusando Morawiecki di “antisemitismo di estrema destra” e sostegno alla sua rivale alle presidenziali. Per Varsavia parlare con Mosca è inutile. Putin è un leader nazista. Per Macron, Morawiecki sostiene una politica antieuropea, illiberale. Ad esempio sui diritti gay o nell’ostilità ai migranti.

La stessa opposizione che l’Europa fa a Orbán. Il fatto è che la Polonia ostile ai migranti sta facendo un enorme sforzo di accoglienza per i profughi ucraini. E pure l’Ungheria dei muri accoglie migliaia di ucraini in fuga. Per dire: Papa Francesco ha inviato in Ucraina due cardinali: l’elemosiniere Konrad Krajewski e Michael Czerny, prefetto ad interim del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale. Il primo è entrato in Ucraina dalla frontiera polacca, mentre il secondo lo ha fatto dall’Ungheria.

Allo scoppio della guerra in Ucraina la Francia si è stretta intorno a Macron. Il margine delle intenzioni di voto lo vedeva in netto vantaggio su tutti gli avversari. Sono iconiche le sue foto in felpa e barba incolta, da presidente di guerra. Non si contano le telefonate con Putin. In Francia la chiamano la “diplomazia del telefono”. Negli ultimi dieci giorni qualcosa è cambiato. Forse il grosso errore di Macron è stato considerare che questo slancio sarebbe durato fino alle elezioni. È andata diversamente.

Le Pen, anziché “pagare” la sua vicinanza passata con Putin, ha ripreso slancio.

Quanto accaduto in Ungheria a inizio aprile fornisce alcuni indizi di interpretazione sulle presidenziali francesi. Per i conservatori europei, Orbán è un modello. Suscita anche l’interesse della destra americana. Sono affascinati dalla sua opposizione ai valori liberal. Nel senso di quelli del multiculturalismo. Scriveva sul Times l’anno scorso, l’editorialista conservatore Ross Douthat: “Non è solo la sua posizione anti-immigrazione o il suo tradizionalismo morale. È che i suoi interventi nella vita culturale ungherese, gli attacchi ai centri accademici liberali e la spesa per progetti ideologici conservatori, sono visti come esempi di come il potere politico potrebbe frenare l’influenza del progressismo”.

Potrebbe valere per Le Pen.

Orbán domenica scorsa ha stravinto le elezioni. Il suo partito Fidesz ha ottenuto 136 dei 199 seggi nel parlamento ungherese. L’opposizione ha 55 seggi. Un’opposizione per la prima volta riunita in una coalizione a sei che va da Socialisti e Verdi al partito di estrema destra Jobbik, che molti considerano un movimento neonazista anche se si è spostato verso posizioni più di centro. Una destra oggi considerata sorprendentemente presentabile dai liberal europei, almeno in funzione anti Orbán. Speranza disattesa.

Per stare in Italia, si sono complimentati col premier ungherese, Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Per stare alla stretta attualità, dalla Francia sono arrivate le congratulazioni di Marine Le Pen. Mai così vicina all’Eliseo: Quando la gente vota, la gente vince!

Tanto entusiasmo sovranista difetta forse di analisi sul sistema Orbán. Ma tanta ostilità liberal forse non fa che dar fiato ai denuncianti la presunta dittatura del pensiero unico.

Quel che conta è la narrativa.

Nel respingere il modello liberale europeo, Orbán ne ha trovato uno nuovo in quello russo. È questo che piace di Orbán ai conservatori. Il côté che piaceva di Putin, ormai inutilizzabile dopo l’invasione dell’Ucraina. Ma Putin è un dittatore sfacciato, un’invasore plateale. Un imperialista novecentesco. Orbán non arresta i giornalisti, non dichiara guerre né avvia operazioni militari speciali. E sulla corruzione è più intelligente. È anche un avvocato. E se ne ricorda. Tutto ciò che ha fatto in Ungheria è stato legale. Piaccia o meno. Gli osservatori internazionali hanno giudicato le ultime elezioni libere, anche se non eque per lo strapotere del sistema presidenziale.

Ai sovranisti francesi non sfugge che l’esecutivo dell’Unione europea ha avviato martedì un nuovo procedimento disciplinare contro l’Ungheria che potrebbe portare al congelamento dei fondi Ue per aver indebolito “i diritti democratici liberali”. Bruxelles non si cura che la misura stoni ai milioni di elettori che domenica ha fatto vincere Fidesz.

Queste mosse, allo specchio, sembrano, per i sovranisti francesi, rappresentare un avvertimento nel caso vincesse Le Pen. La valutazione è ovviamente esagerata, ma quel che conta è il messaggio.

Tutti gli ungheresi si schierano con l’Ucraina contro la Russia, ma una grande maggioranza di loro non vuole che l’Ungheria venga coinvolta nella guerra. A parte la guerra, c’è la questione dell’approvvigionamento energetico ungherese. Il paese ottiene l’80% del gas naturale dalla Russia. Gli ungheresi preferiscono non congelare al buio il prossimo inverno.

L’Ungheria, membro sia dell’Ue che della Nato, ha condannato l’invasione russa ma si è opposta al divieto delle importazioni di energia russe, ha rifiutato di fornire armi a Kiev e vietato il passaggio di mezzi terrestri e aerei che le trasportano da altri paesi. Orbán continua a parlare con Putin, perché crede serva agli interessi ungheresi. Chiede un cessate il fuoco e si propone come mediatore. Il diplomatico Macron non ha forse tentato lo stesso, fino a bisticciare con Varsavia?

Eppure i media occidentali hanno riportato la vittoria del “pro Putin Viktor Orbán”, che è lo stesso tipo di ermeneutica usato oggi dai liberal per agitare lo spauracchio Le Pen in Francia.

Commentando la vittoria di Orbán, lo scrittore conservatore americano Rod Dreher, annotava che focalizzare tutto su Russia-Ucraina, impedisce di capire cosa sta realmente accadendo: “Orbán non è stato votato perché è pro Putin; è tornato in carica perché filo-ungherese”.

Si potrebbe dire che è la stessa valutazione che danno gli elettori di Marine Le Pen in Francia. Elettori che al secondo turno potrebbero aumentare coi voti dell’estrema destra di Éric Zemmour e dell’estrema sinistra di Jean-Luc Mélenchon. Le Pen è nazionalista come il candidato di Reconquête e di sinistra in economia come La France Insoumise.

Macron potrebbe beneficiare di voti dai socialisti e di parte dei repubblicani. I due poli classici della politica francese che lo stesso Macron ha contribuito a rottamare. Solo le urne diranno se ha costruito con La République En Marche un’alternativa duratura alla sua rottamazione. E un brand capace di arginare gli estremi. Il fenomeno dei gilets jaunes è di ieri. La preoccupazione dei liberal europei, come in Ungheria, non coglie che il putinismo non è così avvertito. C’è un cultura diffusa, una diffidenza (trasversale) verso il progressismo occidentale che Oltralpe ha già vinto.

Il numero cumulativo di elettori che voterebbero per Le Pen (24%), Jean-Luc Mélenchon de La France insoumise, sinistra radicale (tra il 17% e il 18%), Éric Zemmour della destra estrema di Reconquête (tra 8% e 9%), il sovranista Nicolas Dupont-Aignan di Debout la France (1,5%) raggiungono il 52%. Con altri piccoli candidati, espressione di voti di protesta “contro il sistema”, il totale salirebbe al 57%. Il campo dei “partiti di governo” Macron (26,5%), la repubblicana Valerie Pécresse (9%) e la socialista Anne Hidalgo (2%), volendo anche l’ecologista Yannick Jadot (4,5%), raggiungono solo il 42,5%.

Quel che preoccupa i francesi è la diminuzione del potere d’acquisto, l’esplosione del caro vita. In fondo non dissimile dalle preoccupazioni degli ungheresi che hanno votato una settima fa per Orban. Non la preoccupazione che una Le Pen all’Eliseo porterebbe lo zar nella patria dei Lumi. In fondo Putin lo ha già fatto negli anni alimentando – e pure sostenendo economicamente – i movimenti anti sistema. Supportato, a loro insaputa, dall’agitato spavento liberal verso i presunti alfieri di quella politica?

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