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Schlein Militante

L’estate militante di Elly Schlein e le astuzie sovraniste di Giorgia Meloni

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

“Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla” (Ennio Flaiano, “Diario degli errori”, Adelphi, 2002). E quest’anno sarà addirittura “militante” (copyright di Elly Schlein).

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Astuzie sovraniste: Giorgia Meloni chiede comprensione a Bruxelles per i ritardi del Pnnr ma non ratifica il Mes.

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Prima la pandemia, poi l’invasione dell’Ucraina: il terzo decennio del terzo millennio non è iniziato sotto i migliori auspici, per usare un eufemismo. E ne stiamo pagando lo scotto nel discorso pubblico. “El sueño de la razón produce monstruos”, recita il titolo dell’acquaforte di Francisco Goya. È così. Dietro al successo dell’astrologia, dello spiritismo, del cospirazionismo, del complottismo, delle più strampalate teorie scientifiche, si cela la tendenza ad alienare una libertà considerata troppo pesante e generatrice di angoscia. Ci si aggrappa perciò a idee irrazionali, che consentono di attribuire la responsabilità di ciò che accade a potenze oscure. Da qui quel malessere che un tempo solo le élite culturali conoscevano, e che oggi è un fenomeno di massa. In un libro pubblicato per la prima volta in Francia nel 2003 e ristampato in italiano da Dedalo (“Storia del mal di vivere. Dalla malinconia alla depressione”), lo storico Georges Minois si chiedeva se non fossimo di fronte “a una sorta di bivio […] fra l’idiozia e la depressione, fra un avvenire di imbecilli felici o di intellettuali depressi”. Nel nostro paese, vent’anni dopo, quel dilemma non è stato ancora sciolto.

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I leader carismatici non hanno eredi. Diverso è chiedersi se -uscito di scena il suo artefice- il berlusconismo possa sopravvivere come famiglia politica, come è avvenuto per il dopo De Gaulle. Se ha ragione chi sostiene che è stato solo una piaga purulenta sul corpo sano della nazione, la risposta è semplice: basta aspettare che guarisca e sarà dimenticato. Se invece ha rappresentato bisogni e interessi reali dei ceti che si sentivano esclusi o ai margini del patto fondativo dell’Italia repubblicana, non credo che quanti ancora vi si riconoscono possano trovarsi improvvisamente orfani e allo sbando, solo perché Silvio Berlusconi non c’è più. Probabilmente molti di loro cercheranno e approderanno in porti più sicuri, ma con il nocchiero della vecchia nave sempre nel cuore.

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A Vienna si è concluso l’International Summit for Peace in Ukraine. Decisa per la prima settimana di ottobre una mobilitazione generale “in tutte le piazze del mondo per il cessate il fuoco e negoziati autentici”. Sono già cominciati i preparativi per le manifestazioni, che si annunciano imponenti, nella Piazza Rossa di Mosca, nella Piazza della Vittoria di Minsk, nella Piazza Tienanmen di Pechino e nella Piazza Khomeini di Teheran.

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Con buona approssimazione, gli intellettuali nemici dell’Ucraina si possono suddividere in due categorie: i nostalgici della destra reazionaria à la René Guenon e gli ex servitori del popolo, maoisti o stalinisti. Entrambi non amano i valori della democrazia liberale, e al cuore non si comanda. Non deve quindi stupire la loro antipatia per un paese che vuole appartenere all’occidente. Né deve stupire che attribuiscano l’origine lontana della guerra agli “amerikani” o ai “gringos”, come vengono chiamati a seconda delle latitudini. Con ciò intendo dire che è difficile, se non inutile, discutere con chi nega l’evidenza dei fatti. E la nega a prescindere, come direbbe Totò, perché per la sua mentalità complottista l’occidente è il regno della menzogna, è l’arte di truccare la comunicazione, è la fabbrica di una verità di facciata. Una posizione da cui nasce quel paradosso logico secondo il quale non dare le armi a Zelensky per difendersi da un’aggressione spianerebbe la strada al negoziato, e non alla vittoria di Putin. Ovviamente, in questo delirante ragionamento c’è posto anche per i semplici propagandisti di Mosca, prezzolati o meno poco importa. Tuttavia, essi sono meno insidiosi di quelli che “l’Europa e gli Stati Uniti non vogliono la pace”. Una tesi -bisogna ammetterlo- che ha una certa presa sull’opinione pubblica italiana, grazie anche alle quotidiane lezioni di realpolitik impartite sulla carta stampata e sul piccolo schermo da sedicenti intellettuali progressisti. Ma l’intellettuale, si sa, è sempre stata una bestia strana. Secondo Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, il suo mestiere era indefinibile. Per l’autore della “Vita agra” il vero intellettuale, in fondo, doveva essere schiavo di tutti e servo di nessuno, ma non un acrobata del circo equestre nazionale.

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Come nel passato quelli che non sapevano leggere e scrivere erano alla mercé degli istruiti, bisogna imparare a pensare per non essere sudditi del pensiero degli altri. Imparare a valutare per non essere soltanto oggetto di valutazione. Imparare a calcolare per non essere soltanto calcolati da Google, Facebook, Amazon, Microsoft, Apple. Imparare a prevedere per non essere soltanto strumento della previsione degli algoritmi. Imparare a immaginare il futuro per evitare che per noi lo immagini soltanto l’intelligenza artificiale. In altre parole, viviamo in un tempo in cui il sol dell’avvenire è sempre più digitale e non scalderà tutti allo stesso modo. Tuttavia, ancora oggi sono molti gli italiani, e quanti li rappresentano nelle istituzioni della sovranità popolare, che non sembrano comprendere questa inedita realtà. Realtà che non viene insegnata nelle scuole, sebbene riempia ormai le giornate degli studenti. Giovani che tra qualche anno saranno lavoratori e cittadini adulti in un secolo ormai plasmato dalle “macchine che obbediscono ai bit senza peso”, come scriveva profeticamente nel 1985 Italo Calvino nella prima delle sue “Lezioni americane”. Purtroppo, nei discorsi della sinistra “egualitaria” abbondano le denunce del crescente divario tra chi ha e chi non ha, ma scarseggiano le denunce del divario forse più regressivo di tutti, ovvero quello tra chi sa e chi non sa. Eppure quest’ultimo, in fondo, è alla radice delle stesse diseguaglianze sociali. Dedico questa minuscola riflessione a Elly Schlein.

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Quasi la metà degli italiani (il 49,15 per cento) nel 2021 non ha dichiarato redditi. Circa il 13 per cento dei contribuenti -quelli con redditi dai 35mila euro in su- ha versato da solo il 60 per cento dell’Irpef. Negli ultimi quindici anni la spesa assistenziale a carico della fiscalità generale è balzata da 73 a 145 miliardi, mentre i poveri assoluti -anziché ridursi- sono passati da 2,1 milioni a 5,6 milioni (da 6 a 8,5 quelli in povertà relativa). C’è qualcosa che non torna. Ma forse è tutta colpa del neoliberismo.

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Per esperienza personale e da qualche lettura ho imparato che non esiste un partito degno di questo nome senza un’organizzazione radicata nella società, una cultura politica condivisa (altri la chiamano identità), un’idea di paese, una leadership forte, riconosciuta e accettata dal gruppo dirigente e dagli iscritti. L’intendence -ovvero le alleanze- suivra, come diceva il generale De Gaulle. Ora, quando queste risorse latitano troppo a lungo, lo spettacolo poco edificante delle logomachie di capicorrente litigiosi e narcisi è inevitabile. Non me ne voglia Elly Schlein, ma dubito che coloro i quali si sono formati per diversi lustri nella scuola del governo e del sottogoverno “a prescindere”, siano oggi in grado di rifondare un partito non più abituato a sedere sui banchi dell’opposizione. Ho pertanto ragione di credere che, se saranno i soliti noti a dare le carte al tavolo da gioco, la buona novella del cambiamento rischi ancora una volta di essere servita sul piatto freddo del gattopardismo.

 

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