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Dittatura

Le sindromi delle dittature. Il caso Egitto

Il saggio di Al-Aswani — uno dei fondatori del movimento egiziano per la democrazia — intitolato “La dittatura. Racconto di una sindrome” (Feltrinelli 2020) è un atto d’accusa spietato nei confronti non solo dei sistemi dittatoriali del mondo arabo ma soprattutto un atto d’accusa spietato nei confronti della dittatura in Egitto

 

Il saggio di Al-Aswani — uno dei fondatori del movimento egiziano per la democrazia — intitolato “La dittatura. Racconto di una sindrome” (Feltrinelli 2020) è un atto d’accusa spietato nei confronti non solo dei sistemi dittatoriali del mondo arabo ma soprattutto un atto d’accusa spietato nei confronti della dittatura che in Egitto è stata posta in essere a partire dal 1952 fino all’attuale regime di al-Sisi.

In questo saggio assolutamente lineare e limpido l’autore individua con estrema lucidità le principali caratteristiche delle dittature.

Uno degli aspetti sui quali l’autore insiste maggiormente è l’efficacia del controllo dei media e la costruzione di una propaganda di regime. La macchina della propaganda di Nasser influenzava l’opinione pubblica dell’Egitto secondo le indicazioni degli apparati di sicurezza. Questa macchina riuscì a convincere gli egiziani che avevano inflitto a Israele una disfatta rovinosa quando invece era l’Egitto ad aver perso il Sinai, la Cisgiordania, Gaza, le alture del Golan e Gerusalemme est durante la guerra dei sei giorni.

Partendo anche dalla riflessione del saggista francese La Boetie e di Gustav Le Bon (letto e apprezzato non a caso da Mussolini) l’autore arriva a individuare delle caratteristiche assai precise che consentono ai sistemi dittatoriali di affermarsi e di consolidare il loro potere. Fra queste vi è certamente la consuetudine ad ubbidire al tiranno rispetto al desiderio di libertà, consuetudine che ha consentito ad intere generazioni di essere addomesticate dai regimi autoritari. Di conseguenza intere generazioni che vengono allevate sotto il tallone dell’autoritarismo non sono più in grado di comprendere il significato della libertà e soprattutto non ne sentono alcuna necessità.

I cittadini egiziani dai tempi di Nasser fino a quelli attuali sono proprio come dei malati di mente dice l’autore: non solo non sentivano il bisogno della libertà ma non riuscivano nemmeno a immaginare una vita senza il dittatore. Il cittadino egiziano comune non ha altri interessi oltre il perimetro della necessità immediate della sua vita quotidiana: si crea quindi un microcosmo sicuro e finisce per essere disinteressato a qualunque cosa. La cosa importante è guadagnare quel tanto che serve a crescere i figli. Proprio per questa sua totale assuefazione il cittadino comune nutre un odio profondo verso la controrivoluzione o comunque verso qualunque cambiamento dello status quo. Alla fine i due unici reali interessi del cittadino egiziano sono da un lato il calcio e dall’altra parte la religione non però vissuta in modo profondo e interiore ma come una serie di riti codificati e ripetitivi.

Allo stesso modo coloro che vivono nelle petromonarchie del Golfo non possono neanche immaginare di essere governati da una forma diversa da quella della monarchia, non possono neanche immaginare che possa esistere un processo elettorale o qualche forma di trasparenza. Agli occhi della società civile di queste monarchie il responsabile del governo è lo sceicco della tribù suprema nei cui confronti bisogna obbedire. Egli solo infatti è il patriarca saggio, premuroso, equilibrato e fermo.

La seconda caratteristica è relativa al fatto che i processi elettorali sono semplicemente una farsa se e quando vengono svolti.

La terza caratteristica è il controllo da parte gli apparati di sicurezza di tutte le attività lavorative soprattutto quelle che si svolgono nell’ambito dell’amministrazione pubblica. Senza il loro beneplacito infatti non è possibile né lavorare né tantomeno fare carriera. Sotto la dittatura di Mubarak le votazioni per il referendum erano soltanto una farsa e i giornalisti per poter fare carriera o tenere un posto fisso presso una quotidiano prestigioso dovevano necessariamente tessere gli elogi del potere. Ancora oggi non è possibile trovare un lavoro nel contesto dell’amministrazione pubblica egiziano senza il beneplacito dell’apparato di sicurezza. Quest’ultimo suddivide i cittadini sostanzialmente in quattro categorie: il sostenitore, il collaboratore, l’oppositore e il manifestante. Proprio per questa ragione lo stato di polizia vige costantemente in Egitto: è sufficiente infatti una telefonata da parte di un agente della polizia politica perché la persona che intende lavorare o intende fare carriera venga privata di qualunque lavoro.

Una delle caratteristiche della dittatura — e siamo alla quarta — è l’esistenza di una contrapposizione insuperabile o lacerante come la chiama l’autore: da un lato c’è la propaganda che costruisce un mondo immaginario e dall’altra esiste la realtà che invece è dominata da una logica caratterizzata da cinismo, brutalità, corruzione e insomma autoritarismo. A questo punto un cittadino egiziano non ha che tre possibilità: lasciarsi corrompere — cioè adeguarsi al sistema — isolarsi o emigrare come ha fatto l’autore del saggio.

Passiamo alla quinta caratteristica. Osservando con attenzione i regimi dittatoriali — e quindi non solo quello egiziano — gli oppositori vengono arrestati, detenuti senza un regolare processo e vengono sottoposti a torture o addirittura alla morte.

La sesta caratteristica che l’autore individua nei sistemi dittatoriali, in modo particolare in quello egiziano, è l’importanza della teoria del complotto che permette di diffondere un clima di terrore tra la popolazione, che impedisce che si possa chiedere conto al dittatore dei suoi errori e perfino dei suoi crimini, che permette di procrastinare l’avvento della democrazia, che giustifica la repressione. Non solo: la teoria del complotto rende più facile il processo di disumanizzazione dell’avversario. Infatti disumanizzare il nemico è il primo passo verso qualsiasi strage o atrocità come quelle attuate dai terroristi. Non a caso il terrorismo come modus operandi è assolutamente assimilabile al modus operandi del sistema dittatoriale.

La settima caratteristica è il controllo dei media. Proprio per questa ragione il despota deve eliminare qualsiasi fonte indipendente di informazione assumendo il controllo completo dei media, in secondo luogo attraverso i media il dittatore mobilita la popolazione contro nemici e contro i cospiratori consolidando quindi il suo consenso politico. Il controllo totale infatti della stampa, della cultura e dell’istruzione consente al dittatore di formare una coscienza pubblica ubbidiente ai dettami del dispotismo. Basti pensare che in Egitto a partire dal 1952 qualunque tipo di libertà di espressione è impedita da un arsenale di leggi che la ostacolano come dimostra per esempio la criminalizzazione dell’ateismo o le leggi relative alla violazione del comune senso del pudore.

L’ottava caratteristica è relativa al rapporto tra il despota e gli intellettuali. In generale i despoti si rapportano agli intellettuali con un misto di disprezzo e di disgusto perché li ritengono giustamente pericolosi per il consenso del regime. Solo nei confronti dell’intellettuale collaborazionista i regimi dittatoriali dimostrano la loro riconoscenza come dimostra il caso del romanziere egiziano Nagib Mahfuz.

La nona caratteristica è relativa al fatto che il dittatore ha bisogno di idoli che sono la longa manus del suo regime e cioè l’esercito, la polizia e la magistratura.

La decima caratteristica è l’utilizzazione della religione come strumento politico: attraverso la religione infatti il dittatore ottiene una autorevolezza ancora maggiore e rende praticamente impossibile che la società civile si opponga al suo volere. Per quanto riguarda il caso dell’Egitto la presenza della Fratellanza Musulmana e soprattutto il fatto che la Fratellanza sostenga la necessità del califfato islamico che prevede uno stato di guerra permanente con gli altri paesi non musulmani ha certamente consolidato il potere politico.

L’undicesima caratteristica è lo sciovinismo che apre la strada spesso a razzismo, terrorismo e alle guerre di espansione.

Ebbene quando ci troviamo di fronte a queste caratteristiche l’opposizione diventa assolutamente necessaria perché siamo certi, assolutamente certi, di trovarci di fronte a un regime dispotico. Ora, alla luce di queste caratteristiche, può sorprendere la fine fatta da Giulio Regini e la prigionia di Patrik Zaki? Soprattutto considerando che entrambi conoscevano le scelte autoritarie del regime egiziano.

Veniamo adesso a formulare alcune considerazioni a margine del volume dell’autore.

Prima considerazione. Gran parte delle caratteristiche individuate dall’autore nei regimi dittatoriali di Saddam Hussein, Gheddafi, Bokassa e di quello egiziano a partire dal 1952 sono riscontrabili da un punto di vista storico nei regimi politici del passato dall’antichità all’età moderna e non costituiscono quindi una novità. Ad esempio: l’uso della tortura per gli eretici fu teorizzata e applicata sia dalla Chiesa cattolica che dalla Chiesa protestante in Europa; la necessità di tutelare il sistema di potere attraverso il controllo della stampa fu una necessità per esempio sia dell’impero augusteo, di quello napoleonico che della stessa Chiesa cattolica che si servì sia dell’Inquisizione che dell’Indice dei libri proibiti.

Quanto poi ai crimini contro l’umanità — o alla violazione dei diritti umani — posta in essere dai regimi politici sia sufficiente pensare al colonialismo europeo che, sorto durante il ‘500, durò fino all’ottocento inoltrato.

La storia, sosteneva Hegel, ci appare come un immenso mattatoio, in cui vengono incessantemente condotti al sacrificio individui, popoli, Stati e civiltà. Nulla sembra sottrarsi a questo destino di morte. E noi, a differenza di Hegel e di Sant’Agostino, non abbiamo né la consolazione dello Spirito Assoluto né quella della divina provvidenza.

Seconda considerazione. In relazione al raffronto tra il regime dittatoriale egiziano e le democrazie se si tiene conto che Stati Uniti, Europa e Urss durante la guerra fredda hanno sostenuto a livello economico e militare gran parte dei regimi cosiddetti non democratici sia nel mondo arabo che in generale in Medio Oriente i confini tra democrazie e non appaiano problematiche. Per usare una espressione eufemistica.

Come dimenticare che, ad esempio, nel lontano 1953 sia l’Inghilterra che gli Usa promossero un golpe in Iran dal momento che il primo ministro Mohammed Mossadeq aveva varato un piano di politica economica finalizzato a nazionalizzare il petrolio? Se tale iniziativa fosse stata posta effettivamente in essere l’Inghilterra avrebbe subito un danno rilevante ed in modo particolare la Anglo-iranian oil company. Ed ecco che prima l’Inghilterra impose l’embargo mondiale sul petrolio iraniano — a causa del quale il paese rimase senza risorse e la sua economia era sul punto di crollare — e poi la Cia insieme al MI6 organizzò un colpo di Stato — denominato operazione Ajax — servendosi dei guerriglieri fedayyin palestinesi per creare vere proprie rivolte per così dire “spontanee”.

Per quanto invece riguarda la guerra Iran-Iraq che si svolse dal 1980 al 1988 bisognerebbe ricordare che numerosi stati, e fra questi la Francia, vendevano armi agli iracheni — nello specifico aerei da combattimento — e dall’altra procuravano all’Iran pezzi di ricambio di cui avevano bisogno per contrastare l’Iran.

Come abbiamo modo di dimostrare in numerosi articoli non sono pochi i paesi europei che ostentano valori e principi democratici e intrattengono nel contempo con il governo egiziano del generale al – Sisi, salito al potere il 2013 con un colpo di Stato (procedura questa non proprio democratica ) ottime relazioni economiche.

La Germania, per esempio, ha venduto all’Egitto quattro sottomarini Type 209-1400 e la Francia ha ottimi rapporti in ambito militare con l’Egitto.

Il potere, come ricordava in un suo fortunatissimo saggio Gerard Ritter, ha sempre un volto demoniaco.

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