Cecilia Sala è libera, è tornata a casa, a Roma, e questa è una notizia da festeggiare, per tutti. La giornalista del Foglio e di Chora Media è atterrata a Ciampino, a Roma, sana e salva.
L’Iran l’ha lasciata andare, dopo una prigionia illegale e immotivata che durava dal 19 dicembre, una ritorsione per il fermo a Malpensa dell’ingegnere iraniano Mohammad Abedini, inseguito dal dipartimento di Giustizia americano.
Abedini è accusato di aver violato le sanzioni americane per fornire, tramite società di copertura in Svizzera, una tecnologia di guida di droni telecomandati che hanno ucciso tre americani in Giordania, a gennaio 2024.
Abedini viene fermato il 16 dicembre e ora è in attesa di estradizione verso gli Stati Uniti, Cecilia Sala viene arrestata il 19 dicembre, l’ambasciata iraniana in Italia – nelle sue dichiarazioni – mette in esplicita connessione i due fatti.
Quando Giorgia Meloni annuncia a sorpresa che Cecilia Sala è su un volo di ritorno dall’Iran verso Roma, tutti si chiedono: cosa hanno avuto in cambio gli iraniani?
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani dice che non c’è una contropartita su Abedini, la Corte d’appello di Milano precisa che non ci sono novità sulla sua detenzione nel carcere di Opera, il ministro della Giustizia Carlo Nordio nega di essere andato a palazzo Chigi a bloccare l’estradizione, come sarebbe nei suoi poteri.
Dunque, ufficialmente Cecilia Sala torna senza contropartite, ma sarebbe davvero la prima volta che l’Iran rilascia qualche ostaggio gratis. Di sicuro si capirà qualcosa presto, intanto il Post – dove lavora Daniele Raineri, compagno di Cecilia Sala – scrive che la mamma della giornalista Elisabetta Vernoni si sente particolarmente grata a Elon Musk, per un suo interessamento diretto alla vicenda, il 29 dicembre.
Vedremo, se l’Iran ha ottenuto qualcosa, prima o poi lo farà sapere. E presto lo capiremo. Intanto noi festeggiamo il ritorno di Cecilia Sala. E il merito dell’operazione viene riconosciuto a Giorgia Meloni che si è occupata della vicenda in prima persona.
La premier ha fatto una mossa sicuramente fuori dagli schemi nel volare a Mar-a-Lago, in Florida, la residenza privata di Donald Trump, il 5 gennaio. Trump ancora non si è insediato come presidente, dunque ogni interlocuzione ufficiale avrebbe dovuto essere con l’amministrazione in carica, quella di Joe Biden, a meno che il confronto con Trump non riguardasse qualcosa che deve accadere dopo il 20 gennaio.
Qualche decisione politica su Abedini potrebbe essere dopo il 15 gennaio, quando si terrà l’udienza in Corte d’appello a Milano sul passaggio dell’ingegnere iraniano dal carcere di Opera agli arresti domiciliari.
Dopo quella scadenza, il ministro della Giustizia Carlo Nordio potrebbe opporsi alla richiesta di estradizione da parte degli Stati Uniti e a quel punto Abedini tornerebbe libero, visto che la giustizia italiana non gli contesta reati.
Poiché Trump è così imprevedibile e fuori controllo da evocare l’annessione del Canada e della Groenlandia o l’uso della forza per impadronirsi del canale di Panama, forse Giorgia Meloni ha sentito il bisogno di confrontarsi in anticipo per evitare che un cedimento alle richieste del regime iraniano all’inizio del secondo mandato Trump scatenasse una reazione incontrollabile da parte della Casa Bianca.
Biden, da parte sua, difficilmente si sarebbe opposto a uno scambio con l’Iran, almeno in via di principio. Negli ultimi anni, e in particolare nelle amministrazioni Obama e soprattutto in quella Biden, gli Stati Uniti hanno rivisto la loro politica sugli ostaggi catturati da regimi criminali come quello iraniano.
Dieci anni fa gli ostaggi americani venivano decapitati dall’Isis, perché il governo rifiutava ogni trattativa con i terroristi, specie nel caso dei gruppi islamisti, da Al Qaeda all’Isis. Il caso più tristemente celebre è quello del giornalista James Foley, decapitato dall’Isis.
Da allora Washington ha cambiato approccio, quella rigidità non era più tollerata da un’opinione pubblica sconvolta dal sacrificio di americani innocenti in nome della linea della fermezza che non sembrava però scoraggiare nuovi sequestri.
Obama ha cambiato le cose, ha creato un inviato speciale per gli ostaggi e una serie di strutture nell’amministrazione per gestire le crisi, gli Stati Uniti hanno iniziato a trattare e a pagare. Dal 2015 a oggi, ben 120 americani sono stati rilasciati grazie a questa nuova linea. La metà durante l’amministrazione Biden.
A fine 2023, per esempio, il governo americano ha realizzato uno scambio di prigionieri, cinque contro cinque, proprio con l’Iran e ha sbloccato fondi per 6 miliardi di dollari che erano congelati in banche della Corea del Sud dalla minaccia di sanzioni americane.
Gli iraniani hanno recuperato i soldi e i prigionieri, e hanno anche imparato che prendere ostaggi è una tattica efficace per costringere le potenze occidentali a dialogare sul programma atomico della Repubblica islamica o su altri tavoli.
Biden, quindi, non avrebbe potuto contestare in via di principio una trattativa intorno a Cecilia Sala, ma Trump sì, visto che il futuro presidente Repubblicano è pienamente allineato con il premier israeliano Benjamin Netanyahu che considera l’Iran il perno dell’asse del male e il regime degli ayatollah da rovesciare.
Forse Meloni ha preferito avere l’assenso di Trump e aspettare a gestire il caso Abedini che Joe Biden completasse la sua visita italiana che inizia il 9 gennaio.
Crisi come quella intorno a Cecilia Sala mettono sotto forte stress qualunque governo. In questo caso hanno reso evidenti alcune linee di frattura all’interno dell’esecutivo, e le clamorose dimissioni della direttrice dei servizi segreti Elisabetta Belloni costringono a prendere sul serio questioni che altrimenti rimarrebbero confinate nei retroscena dei giornali.
La liberazione di Cecilia Sala è un successo personale di Giorgia Meloni e del direttore dell’Aise, il servizio di sicurezza esterno, il prefetto Gianni Caravelli, che infatti era sul volo per Teheran che doveva riportare a casa la giornalista. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano ha la delega all’intelligence, quindi era lui lo snodo di coordinamento durante la crisi.
Il padre di Cecilia Sala, il banchiere Renato Sala, ha molto ringraziato il ministro degli Esteri Antonio Tajani, suo vicino di casa e amico, che però è uno di quelli che certo esce ridimensionato da questa vicenda. E’ stato il suo ministero a rendere pubblica la detenzione di Cecilia Sala, il 27 dicembre, ma Tajani non ha partecipato alla visita da Trump a Mar-a-Lago ed è sembrato sempre poco informato.
Poi c’è il caso di Elisabetta Belloni, ambasciatrice stimata da tutti in modo trasversale ma che si è mossa in modi difficili da comprendere. Belloni è stata nominata al Dis, cioè al coordinamento dei servizi segreti, dal governo Draghi nel 2021, pochi mesi prima di trovarsi addirittura candidata al Quirinale.
Decide di dimettersi nei primi giorni del sequestro di Cecilia Sala, quando ancora la notizia non è pubblica. Le dimissioni vengono rivelate da Repubblica in un altro momento delicato, mentre Giorgia Meloni sta volando da Trump, E poi, terzo elemento temporale abbastanza incredibile, la mattina della liberazione di Cecilia Sala esce una specie di intervista di Elisabetta Belloni al Corriere della Sera che spiega l’addio.
In pratica, Belloni rivela che se ne va perché non ha buoni rapporti con il ministro degli Esteri Tajani e con il sottosegretario Mantovano, sostiene anche che la sua progressiva uscita è stata discussa con il governo già ai primi di dicembre.
Se così fosse allora risultano doppiamente inspiegabili i tempi dell’uscita delle notizie, inclusa questa irrituale intervista per un capo dei servizi ancora in carica che dovrebbe mantenere il massimo del riserbo, specie se intanto gli apparati di sicurezza, il governo e la diplomazia stanno finalizzando il rilascio di una giornalista sequestrata.
O dobbiamo credere che quando Belloni ha parlato con il Corriere della Sera fosse all’oscuro degli sviluppi nei negoziati con l’Iran? Pure questo sarebbe ben strano, anche se molti retroscena ispirati dal mondo dei servizi segreti hanno sottolineato che tutte le trattative sono state gestite direttamente dall’Aise di Caravelli, e questo non sarebbe stato gradito da Belloni che in teoria dovrebbe coordinare l’azione di tutto l’intelligence, quindi Aisi e Aise.
Un bilancio
Alla fine di questa storia restano alcune consapevolezze. Primo: quello dell’Iran è un regime criminale, e questo non è un problema soltanto per gli iraniani, come dimostra il caso di Cecilia Sala e di dozzine di altri ostaggi di Stato detenuti nelle carceri iraniane.
Abbiamo visto che è un fallimento esportare la democrazia con le armi, come dimostrano Afghanistan e Iraq, ma convivere con i regimi criminali e oppressivi è un pericolo, per tutti.
Sia gli approcci dialoganti, delle amministrazioni democratiche americane e dell’Unione europea, che quelli più ostili dei Repubblicani americani finora hanno raggiunto pochi risultati nel favorire una qualche evoluzione democratica dell’Iran.
Seconda consapevolezza: il giornalismo in questa storia non c’entra niente, Cecilia Sala non è stata arrestata per quello che faceva come lavoro, ma perché era italiana, e all’Iran serviva un ostaggio per aprire una trattativa sul suo ingegnere fermato a Malpensa. Può sembrare una sottigliezza, ma il punto è che sono a rischio tutti i cittadini di Paesi in grado di pagare riscatti, non soltanto i cronisti.
Questo è il senso di un messaggio che sembra quasi provocatori del ministero della Cultura e dell’Orientamento islamico dell’Iran che a proposito di Cecilia Sala ha detto che l’Iran segue una politica basata “sull’accoglienza dei viaggi e delle attività legali dei giornalisti internazionali, sull’aumento della presenza dei media stranieri nel Paese e sulla protezione dei loro diritti legali e questo approccio viene seguito seriamente anche nel quattordicesimo governo”. Il problema dell’Iran con Cecilia Sala non era che fosse una giornalista, ma che fosse italiana.
Terza consapevolezza: per fortuna non c’è stato un vero scontro ideologico tra linea della fermezza e della trattativa, un po’ tutti erano disposti a fare il necessario per riportare Cecilia Sala a casa, perché non si sacrificano vite in nome dei principi.
Ma dobbiamo essere consapevoli che abbiamo a che fare sempre più spesso con soggetti – Stati, dittatori, milizie, terroristi – che sono disposti a usare la violenza e la sopraffazione in modi ai quali noi – noi occidentali, democratici, pacifici – non siamo preparati.
Viviamo in un mondo sempre più pericoloso, rispetto a quello che abbiamo conosciuto nei decenni della globalizzazione americane. E dobbiamo ancora decidere – noi europei, occidentali, noi italiani – come affrontarlo, se ritirandoci nei nostri confini, se rispondendo alla forza con la forza, o accettando di diventarne vittime pur di non rimettere in discussione il nostro stile di vita.