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La vera partita per il Campidoglio dopo Virginia Raggi

Chi dopo Virginia Raggi a Roma? L'analisi di Gianfranco Polillo

L’imperativo per Roma, o meglio per gli elettori romani, è non sbagliare. Non ripetere quanto già avvenuto nel 2016. Con quel disincanto verso le forze politiche tradizionali che portarono al trionfo di un outsider, come Virginia Raggi, nella speranza di un rinnovamento catartico, in grado di dare alla Capitale d’Italia il lustro di un antico passato. Fu un tragico errore. Inesperienza e supponenza portarono all’inevitabile catastrofe.

Chi potrà dimenticare le riunioni clandestine sui tetti del Campidoglio? L’abbraccio mortale ed esclusivo con personaggi del sottobosco amministrativo. La riffa continua nel susseguirsi degli assessori e dei capi di gabinetto. Ed alla fine lo status della città. Il suo continuo regredire verso livelli di inefficienza sempre maggiori. Al punto da trasformare una splendida città in un avamposto del mondo levantino. Con tutto il rispetto per quest’ultimo, considerando le relative distanze, in termini di reddito relativo e di sviluppo complessivo.

Sul degrado di Roma, dopo cinque anni di consiliatura, si può discutere. I pareri possono divergere sulle spinte contrapposte del proprio credo politico. Da una parte la denuncia (le strade, la nettezza urbana, i trasporti, i disservizi e via dicendo), dall’altro il rimpallo, che chiama in causa le carenze delle passate Amministrazioni. Cinque anni possono essere pochi per mettere mano ad antiche nefandezze, che si sono consolidate. Tutto vero. Ma un dato non può essere trascurato.

Nell’immaginario collettivo, oltre le mura aureliane, che in passato segnavano il confine naturale della città, Roma è una capitale fantasma. Nulla a che vedere con città come Londra, Parigi, o Berlino. Ma nemmeno con Bruxelles o Lisbona. Mentre con la Spagna, grazie alla rivalità tra Madrid e Barcellona, che replica, in qualche modo, quella tra la stessa Roma e Milano, il confronto, seppure malamente, tiene. Sebbene svetti, poi, su ogni altra cosa la presenza del Vaticano, sempre più elemento connotativo della città nel grande atlante internazionale.

Forse una capitale fantasma, Roma lo era stata anche prima. Non comunque ai tempi di Ernesto Nathan o di Giuseppe Bottai, che, da Governatore della città, seppe opporsi a Benito Mussolini, per i suoi progetti sull’E 42. Ma in un contesto diverso. L’Europa era, allora, un freddo condominio, dominato dall’intransigenza tedesca e francese. E dall’incapacità italiana di far sentire le proprie ragioni. Oggi non solo c’è Mario Draghi. C’è l’impegno comune, nella Next generation Eu: il timido inizio che può cambiare quella logica regressiva, che, in passato, ha disatteso ai grandi obiettivi (la convergenza) dei padri fondatori. Ma non vi saranno pasti gratis. Ciascun Paese dovrà dar prova di un rigore ed un’efficienza senza precedenti, per poter godere di quelle provvidenze.

La gestione di quei fondi comuni segnerà la nascita di un muovo paradigma che non varrà solo nelle sedi internazionali, ma segnerà, sotto il segno dell’accountability, tutti i rapporti inter-istituzionali. Non solo l’Italia dovrà risultare credibile nei confronti della Commissione europea. Ma lo stesso atteggiamento dovrà esservi tra l’Amministrazione capitolina e gli organi dello Stato centrale. Dovrà accrescere la sua credibilità, quale pre-requisito per la concessione di uno Statuto speciale. Dimostrarsi all’altezza della fiducia che eventualmente, e comunque solo dopo, le sarà accordata. Specie nell’uso di quelle risorse oggi disperse, in modo incomprensibile, in dispregio di qualsiasi logica gestionale. Una piccola rivoluzione quotidiana: impensabile se non costruita intorno ad un gruppo dirigente, capace di garantirne gli indispensabili sviluppi.

Per questo l’elezione del futuro sindaco è così importante. Roma ha bisogno di una figura che, di per sé, rappresenti una garanzia, in termini di prestigio e professionalità. Che sappia circondarsi di una squadra di livello, in grado di offrire alla città e alla Nazione quanto serve per non deludere le necessarie aspettative. Una partita complessa e complicata che dovrà iniziare con la scelta di un candidato che risponda a questo identikit. E che dovrà vedere entrambi gli schieramenti, centro destra e centro sinistra, lavorare in modo sincronico. La scelta dell’uno, infatti, condizionerà la scelta dell’altro. In un gioco che dovrà risultare a somma positiva.

Bisognerà evitare di seguire le orme della precedente campagna elettorale: segnata non solo dalla competizione tra i diversi schieramenti. Ma, all’interno di ciascuno, da incertezze, incomprensibili rivalità, concorrenze al ribasso che, alla fine, hanno prodotto quei risultati che tutti hanno potuto vedere. Sul fronte della sinistra, Roberto Giachetti e Virginia Raggi. Su quello opposto prima Guido Bertolaso, poi Alfio Marchini, in competizione con Giorgia Meloni. Nessuna logica unitaria. Ed alla fine un risultato che rifletteva la confusione di quegli anni. Il guardare agli interessi immediati del proprio micro cosmo partitico, senza pensare al bene della città. Fino a determinare la sconfitta della stessa politica.

Non ci può essere un secondo errore. Sarebbe diabolico. Al momento le candidature sulla piazza sono quelle di Virginia Raggi e Carlo Calenda. Enrico Letta ha bloccato, sul nascere, quella di Roberto Gualtieri, evitando di innescare un pericoloso contenzioso. Nel centro destra, invece, Guido Bertolaso insiste nel dichiararsi poco interessato. Comunque c’è tempo, grazie al lungo rinvio deciso a causa della pandemia. Tempo: ma non per rimanere con le mani in mano. Al contrario bisognerà muovere i primi passi, per cercare di capire su quali priorità programmatiche puntare. In base alle quali vagliare le stesse candidature. Non tanto per battere Virginia Raggi, che, forse, non reggerà nemmeno fino all’inizio dei comizi elettorali. Ma per invertire una tendenza rovinosa, che dura da un tempo infinito.

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