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Whist

La rivoluzione spaziale planetaria di Carl Schmitt (e una divagazione sul whist)

Il Bloc Notes di Michele Magno

Terra mare et contra mare terras terminat omnis; omne quidem vero nihil est quod finiat extra (“Il mare confina con la terra e, a loro volta, tutte le terre col mare; ma il tutto, in verità, non c’è nulla che lo delimiti dall’esterno”).

Lucrezio, De rerum natura

“La storia del mondo è storia di lotta di potenze marinare contro potenze di terra e di potenze di terra contro potenze marinare”, sostiene Carl Schmitt in un saggio in forma di racconto per la figlia Anima scritto nel 1942, Terra e mare (Adelphi, 2002). È alla luce di questa contrapposizione, rappresentata nella Bibbia dai mostri Leviathan e Behemoth, che il giurista tedesco rilegge le grandi dicotomie della storia umana: amico e nemico, ordine e disordine, guerra e pace. In un racconto forse più influenzato dai romanzi di Herman Melville che dagli studi sul Rinascimento di Jacob Burckhardt, il teorico dello “stato di eccezione” descrive quella “rivoluzione spaziale planetaria” segnata dall’evento con cui inizia l’era moderna: la scoperta delle Americhe.

È da allora che l’uomo, per natura creatura terrestre, “rinasce quale figlio del mare”. Venezia e Genova, Amsterdam e Londra saranno culle di questa rinascita. Nell’antichità, la stessa Atene di Temistocle aveva evitato un declino rovinoso trasformandosi in una talassocrazia. Nelle Vite parallele Plutarco sottolinea come, una volta sventata la minaccia persiana dopo la vittoria di Salamina (480 a.C.), con l’apertura del Pireo ai tradizionali “aristòi” latifondisti fosse subentrato un ceto virtuoso del “remo e del timone”. Il suo valore sociale non si basava sul sangue o sulla proprietà terriera, ma sulla capacità di governare la nave, metafora della capacità di reggere la polis. Questa “apertura al mare” crea anche una nuova antropologia: marinai, nostromi e piloti educati all’audacia e alla prudenza, al coraggio e all’accortezza che il dominio dei flutti imponeva (Filippo Ruschi, Questioni di spazio, Giappichelli, 2012).

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All’inizio degli anni Cinquanta, solo dei veggenti potevano prevedere che gli italiani avrebbero spezzato l’egemonia bridgistica anglosassone. Del resto, il fascismo non aveva di sicuro incoraggiato un gioco in cui spadroneggiavano inglesi e americani. Uno degli aedi del regime mussoliniano, il futurista Filippo Tommaso Marinetti, aveva scritto nel 1940 un articolo intitolato “Viva la Matta! Abbasso il Bridge e i Giochi Stranieri” in cui si può leggere: “È antitaliano e di carattere protestante discutere lungamente sulla regola, il punteggio, la chiamata, opprimendo il garbato incontro di persone dedite a divertire le proprie sensibilità con un cocciuto perfezionamento di calcoli senza fine e conseguenti diverbi”.

Forse Marinetti sapeva che lo stesso antenato del bridge, il whist, era nato in Inghilterra. Assai diffuso nella seconda metà del Seicento tra gli strati più bassi della popolazione, era però considerato come un passatempo da cacciatori o scudieri di campagna, non degno di gentiluomini e nobildonne. Riesce a trasferirsi stabilmente nei ritrovi e nelle abitazioni dell’alta borghesia britannica solo un secolo dopo, grazie al successo riscosso dalle regole codificate da Edmund Hoyle nel suo “Short Treatise on the Game of Whist” (1742). Ventiquattro regole auree che, dando una solida base di certezze al conservatorismo dei sudditi di Sua Maestà, permisero al gioco di passare dall’alterco fumoso dell’osteria di campagna all’ovattata compostezza del circolo cittadino.

Dalla natia Gran Bretagna il whist non fatica a sbarcare nel continente, invade la Francia sotto il regno di Luigi XV (1715-1774) e ne conquista la favorita, Madame Du Barry. Si giocava ovunque: nelle bettole come nella dimora di Madame de Staël e nelle sale del prestigioso hôtel Thélusson; e si continuò a giocare anche durante la rivoluzione. Giocavano il principe di Talleyrand (1754-1838) e le mogli di Napoleone, Giuseppina e Maria Luisa. E francese era il più fenomenale giocatore di allora. Si chiamava -trattenete il respiro- Alexander Louis Honoré Lebreton Deschapelles (1780-1847). Generale dell’esercito e diplomatico, era anche un rinomato scacchista e, sebbene mutilato di un braccio, sapeva impugnare con maestria la stecca da biliardo. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Benjamin Franklin (1706-1790) -dopo averlo appreso nel suo soggiorno londinese- divulga il whist a Filadelfia, da dove si propaga in America ancor prima della guerra d’indipendenza. Veniva giocato nel New England come negli stati sudisti, tra i piantatori di cotone come a bordo dei battelli che solcavano il Mississipi. E si barava molto, anche perché negli ambienti più elevati barare era apprezzato come prova di invidiabile destrezza.

 

 

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