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La Rabbia

La Rabbia di Pasolini e di Guareschi

Il Bloc Notes di Michele Magno

“La dolce vita” di Federico Fellini (1960) deve la sua enorme fortuna internazionale anche all’immagine che l’Italia di allora, apparentemente ricca e gaudente, dava di sé nell’euforico inizio degli anni Sessanta. Immagine peraltro largamente artefatta, come mostra un altro film dell’epoca, “Il sorpasso” di Dino Risi (1962). Il carattere godereccio e ottimista del suo protagonista (un grande Vittorio Gassman) viene infatti continuamente contraddetto da un contesto decisamente modesto, ossia da una nazione popolata da personaggi dagli orizzonti limitati, piccoli borghesi, suorine; dei ricchi non viene taciuta la volgarità, e del resto il lusso che ostentano è piuttosto scadente.

Della mutazione antropologica degli italiani negli anni del miracolo economico si occupa un terzo film, “La rabbia” (1963), forse meno noto (fu un fiasco al botteghino) ma non meno significativo. Il suo produttore, Gastone Ferranti, per realizzarlo aveva messo a disposizione di Pier Paolo Pasolini l’immenso archivio del cinegiornale “Mondo Libero” di cui era proprietario. Più tardi, temendo di incontrare le forbici della censura perché troppo sbilanciato a sinistra, decise di affidare una seconda parte del lungometraggio a uno scrittore culturalmente agli antipodi del regista di “Accattone” (1961). Dopo aver scartato diversi nomi, tra cui quello di Indro Montanelli, la scelta cadde su Giovanni Guareschi.

Nel 1954 il direttore del settimanale umoristico “Candido”, era venuto in possesso di due lettere dal contenuto scottante. Nella prima, datata 19 gennaio 1944, Alcide De Gasperi, su carta intestata del Vaticano, chiedeva agli Alleati di bombardare Roma per scuotere la sua indolente popolazione, e indurla così a sollevarsi contro i nazifascisti. Nell’altra, del 26 gennaio 1944, il leader democristiano comunicava a un capo della Resistenza che i bombardamenti erano imminenti. L’inventore della saga di “Peppone e Don Camillo” aveva pubblicato entrambe le lettere sul suo giornale. La querela fu immediata, e il tribunale lo condannò a un anno di reclusione, a cui si si sommarono gli otto mesi con la condizionale che gli erano stati inflitti nel 1951 per una vignetta ritenuta offensiva dell’onore del presidente della Repubblica Luigi Einaudi.

Guareschi, dunque, nel 1962 era un uomo profondamente provato da quella vicenda, di salute instabile, ormai completamente fuori dai circuiti mediatici. Nonostante ciò, accettò l’offerta di Ferranti. Perché il confronto con Pasolini lo stuzzicava, anzi risvegliava appieno la sua natura polemica, e poi era stufo del lungo isolamento a Roncole Verdi, nella sua “Bassa”. E difatti “La rabbia” sarà un’opera fortemente provocatoria, che rispecchiava due letture opposte di un quindicennio di grandi trasformazioni dei costumi nazionali e degli equilibri politici mondiali. Due letture opposte e tuttavia accomunate dalla critica a un travolgente consumismo e dall’attaccamento al passato, alla cultura contadina segnata dai valori del sacrificio, del dovere, della probità.

Deciso a superare gli schemi classici del documentario, Pasolini affianca alla voce fuori campo dei cinegiornali un testo, recitato in versi da Giorgio Bassani e in prosa da Renato Guttuso, al quale assegna il compito di esprimere il suo punto di vista sulla rivolta di Budapest, la crisi di Suez, la rivoluzione cubana. Improvvisamente entrano in scena i giovani del boom che ballano a ritmo di jazz e due icone del divismo, Ava Gardner e Sofia Loren. È il promo di un saggio dolente sull’ascesa della civiltà industriale e la fine del mondo contadino, a cui viene contrapposto lo spirito religioso di Papa Giovanni XXIII e il riscatto della tradizione, che può essere assicurato soltanto da una rottura rivoluzionaria, “perché solo la rivoluzione salva il passato”. L’accostamento tra Marylin Monroe, il simbolo più sensuale del sogno americano, e Yuri Gagarin, il simbolo più moderno del mito sovietico, si accompagna alla denuncia delle disuguaglianze incolmabili tra la borghesia milanese della Scala e le famiglie sfrattate delle periferie romane, tra la classe “padrona delle bellezza e della ricchezza” e la “classe che dà supremo valore alle sue povere mille lire, e su questo fonda una vita, capace di illuminare la fatalità del morire”.

Anche Guareschi inizia con una sequenza di giovani che ballano il rock and roll al raduno del Palaghiaccio di Milano del 1958. E anche lui si scaglia contro i modelli e i misfatti della società di massa: il quiz televisivo “Lascia e Raddoppia” con Mike Bongiorno e Edy Campagnoli, le sfilate di moda con le modelle in biancheria intima, gli elettrodomestici di un grande magazzino, le automobili che invadono le città, la speculazione edilizia che deturpa le coste, gli appuntamenti mondani dei potenti, le cronache rosa di attricette e affaristi.

Alternando le immagini di Palmiro Togliatti, Nilde Iotti e Marisa Malagoli a teatro con quelle di Totò, circondato dai fotografi in un seggio elettorale, la voce fuori campo del doppiatore Carlo Romano esclama: “Divertirsi non è più privilegio di pochi. Oggi anche le proletarie possono farsi la pelliccia”. E mentre scorrono sullo schermo le immagini di Fellini, Anita Ekberg, Brigitte Bardot, piovono gli attacchi agli intellettuali di sinistra e a quel mondo della celluloide che, in base a una falsa idea di libertà, hanno fatto prendere al sesso “il posto del cuore e del cervello”, rivalutato l’omosessualità, trasformato Roma da centro della cristianità a un postribolo.

Guareschi non è meno tenero con il neocapitalismo, che non può garantire “contentezza e pace” a un ordine internazionale fondato sulla vendetta dei vincitori sui vinti della Seconda guerra mondiale, come dimostrano il processo di Norimberga, Piazzale Loreto, Hiroshima, le fosse di Katyn e l’Europa divisa dal muro di Berlino. Inoltre, si schiera apertamente dalla parte della Francia nella guerra d’Algeria, insulta il sindaco di Firenze La Pira per il gemellaggio con la città marocchina di Fez, esalta le vittime della repressione sovietica della rivoluzione ungherese del 1956. E alle parole degli astronauti Gagarin e Titov, che nei loro viaggi spaziali non avevano incontrato “né angeli né santi”, contrappone la fede genuina delle “donnette” di Napoli che incitano San Gennaro a compiere il miracolo del sangue che si scioglie nell’ampolla, perché “i beni materiali non bastano all’uomo, che è fatto di materia e di spirito”.

Terminato il montaggio (in due sale diverse), il film fu visionato da ambedue gli autori. Pasolini decise di annullare la sua firma e, dopo solo tre giorni di programmazione, venne ritirato dalle sale cinematografiche. L’antagonismo con Guareschi, accusato di essere un razzista e un nazifascista, raggiunse il calor bianco. Dal canto suo, Guareschi gli rispose per le rime, definendolo un borghese conformista incapace di ridere, come tutti gli amici dei regimi comunisti.

Va segnalato, da ultimo, che nella sua recensione Alberto Moravia non fu tenero con il suo pupillo: “Pasolini ha voluto dare un’interpretazione il più possibile originale e personale degli avvenimenti […]. L’avremmo preferito più semplice, più diretto, più razionale, meno letterario. Pasolini piacerà senza dubbio ai suoi lettori, che sono certo assai numerosi; ma riuscirà forse un po’ difficile e oscuro all’ancor più numerosa massa degli spettatori meno avvertiti” (“L’Espresso, 21 aprile 1963).

 

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