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Paesi Sicuri

La politica dell’immigrazione non possono farla i giudici. Parla il prof. Esposito (Luiss)

La decisione del tribunale di Roma? "Non ci troviamo davanti a un problema di applicazione del diritto europeo, ma di sostituzione di una valutazione giudiziaria a una valutazione che compete invece al governo". Il decreto legge approvato? "Se il giudice ritiene che la norma nazionale contrasti con la norma comunitaria, può disapplicare la norma nazionale anche avente forza di legge. E ha due strade. A meno che...". Conversazione con Mario Esposito, docente di Diritto costituzionale alla Luiss

“Quello a cui abbiamo assistito è uno scontro tra poteri dello Stato”. Non usa mezzi termini il prof. Mario Esposito, costituzionalista e docente dell’Università Luiss, per inquadrare la vicenda che ha visto il Tribunale di Roma non convalidare i dodici trattenimenti nei confronti di altrettanti migranti nel centro di Gjader in Albania, che così sono tornati in Italia. “La magistratura pretende di sostituire una sua valutazione a quella di alta amministrazione, di alta politica. Non lo possono fare. La politica dell’immigrazione è una parte delicatissima e complessa della politica estera e non la fanno i giudici”, aggiunge il professore.

La motivazione dei giudici capitolini è nella sentenza C-406/22 della Corte di giustizia europea che ha stabilito i criteri in base ai quali un paese può essere considerato sicuro. Secondo i giudici romani il Bangladesh e l’Egitto non sono considerati “sicuri”, a differenza di quanto ha valutato la Farnesina. Per tutta risposta il governo ha varato un decreto-legge nel quale stila un elenco di Stati che considera sicuri. Una vicenda complessa e tecnica che si confronta direttamente con la salute della nostra democrazia e con l’equilibrio tra i poteri.

COSA SANCISCE LA SENTENZA C-406/22 DELLA CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA

La sentenza C-406/22 della Corte di giustizia europea fa derivare l’attribuzione di Paese sicuro “dalla possibilità di dimostrare che, in modo generale e uniforme, non si ricorre mai alla persecuzione quale definita all’articolo 9 della direttiva2011/95, tortura o pene o trattamenti inumani o degradanti e che non vi sia alcuna minaccia dovuta alla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato internazionale o interno”. Tali condizioni “devono essere rispettate in tutto il territorio del paese terzo interessato affinché quest’ultimo sia designato come paese di origine sicuro”. Una valutazione che “spetta alle autorità governative, l’ha detto anche la stessa Corte di giustizia europea”, spiega il docente della Luiss.

PAESI SICURI: COME CAMBIA LA NORMATIVA EUROPEA

La Corte europea è intervenuta in tal senso perché “la precedente direttiva consentiva agli Stati di limitare la qualificazione di alcuni Paesi a Paesi sicuri con riferimento solo ad alcune zone del territorio e non a tutte – aggiunge il docente -. Invece con la direttiva vigente attualmente, il Paese o è sicuro nella sua interessa o non è sicuro. Basta che in una parte del territorio ci siano rischi di compromissione dei diritti fondamentali perché il paese non possa essere qualificato come sicuro”. Una statuizione che, tra l’altro, cambierà a breve. “Il prossimo regolamento stabilisce che i Paesi potranno essere qualificati come sicuri anche solo in parte – spiega il professore di Diritto costituzionale -. È una questione molto tecnica con la quale la Corte di giustizia non ha detto che spetta al giudice valutare se il paese sia sicuro o meno ma che gli Stati non possono limitare la qualificazione di paese sicuro a una parte soltanto del loro territorio”.

LA SOSTITUZIONE DELLE VALUTAZIONI DEI GIUDICI A QUELLE POLITICHE

“Quello che mi stupisce – aggiunge il professor Esposito – è che nel provvedimento del Tribunale di Roma, che è molto brevemente motivato, il giudice è arrivato a conclusioni diverse sulla base degli stessi dati analizzati dal Ministero. Questo è un punto delicatissimo. Non ha sconfessato i dati in base ai quali sono stati definiti i Paesi sicuri ma ha diversamente apprezzato i dati forniti dal ministero degli Esteri che avevano dato luogo a quel decreto interministeriale. Questo fa capire quanto grave sia il conflitto tra i poteri perché non ci troviamo davanti a un problema di applicazione del diritto europeo, ma di sostituzione di una valutazione giudiziaria a una valutazione che compete invece al governo. Questo non ricade nello schema della separazione tra poteri. Il principio di separazione dei poteri garantisce la integrità di tutti i poteri, anche di quello giudiziario, non solo di quello giudiziario”.

I DUBBI SULLA VALUTAZIONE DEL TRIBUNALE DI ROMA SUI PAESI SICURI

Tra l’altro potrebbe essere opportuno verificare quali siano gli argomenti e i riferimenti in possesso dei giudici del Tribunale di Roma per qualificare alcuni paesi come non sicuri. “L’autorità ministeriale, in questo caso il ministero degli Esteri, ha le rappresentanze diplomatiche, ambasciate, consolati, quindi può fare una verifica in situ – aggiunge il professor Esposito -. Un giudice quali strumenti ha per fare questa valutazione? Il giudice Tribunale di Roma ha mandato un perito? Ha delle sezioni distaccate in Egitto, in Bangladesh? Non mi risulta. Allora in base a cosa possono fare il lavoro dell’autorità ministeriale? E non può certo contare sulle dichiarazioni fatte dalle persone migranti”.

Tuttavia, il ministero degli Esteri, nelle note che ha fatto pervenire, ha indicato che per alcune categorie di persone il Bangladesh e l’Egitto non sono Paesi sicuri, soprattutto in merito alla libertà di esprimere il proprio orientamento sessuale. “Questo è un elemento che le autorità italiane dovranno tenere in considerazione quando la persona che migra, e che arriva da un paese sicuro, sostiene di essere sottoposto a maltrattamenti ed essere esposto a rischi. Questi sono elementi istruttori che il ministero degli Esteri offre all’autorità amministrativa che dovrà esaminare le domande”. Sono, dunque, aspetti differenti. “La qualificazione di paese sicuro riguarda le garanzie di diritti fondamentali sul territorio, il fatto che alcuni comportamenti possano essere oggetto di rischio è un altro discorso, che attiene anche alle diverse culture. Valuterà l’autorità amministrativa se ci sono gli estremi per assegnare loro lo status di rifugiato ma sono cose diverse, è un elemento che sarà valutato nel merito delle domande, non ha niente a che fare con l’applicazione della sentenza della Corte di giustizia”, rimarca il docente della Luiss.

LA PROCEDURA ACCELERATA: PERCHÉ NON È UN PROBLEMA

Un altro argomento sostenuto da chi ha espresso soddisfazione per la decisione della magistratura riguarda il ricorso alla procedura accelerata. Se un Paese è ritenuto sicuro, infatti, le richieste di asilo avanzate dai loro cittadini sono analizzate attraverso una procedura accelerata. “L’applicazione della procedura accelerata non vuol dire che la domanda non sarà esaminata ma soltanto che sarà una procedura accelerata perché proviene da paesi sicuro”, spiega il docente.

IL DECRETO-LEGGE DEL GOVERNO CHE ELENCA I PAESI SICURI: IL DUPLICE VALORE DELL’ATTO

Per provare a mettere ordine nella materia il governo ha approvato un decreto-legge che contiene una lista dei Paesi di origine cosiddetti “sicuri” per le persone migranti. “La scelta di emanare un decreto-legge porta la norma dal livello amministrativo, del decreto ministeriale, a quello legislativo”, aggiunge il professore della Luiss. Questo ha un duplice valore. In primo luogo “ha un valore tecnico di spostamento in una in una fonte primaria”, spiega il prof. Esposito. Una novità che non “blinda” la norma rispetto all’interpretazione della magistratura perché “se i giudici continuano a ragionare, in maniera, secondo me, non condivisibile perché non trova fondamento nella sentenza, secondo il presupposto per il quale la direttiva debba essere interpretata come se dicesse che non può essere considerato sicuro un paese nel quale risultino elementi che non convincono il giudice circa la sua sicurezza, e questo a prescindere dalla valutazione del Ministero, l’atto può essere impugnato”.

Non è da escludere, quindi, che i giudici facciano lo stesso ragionamento anche nei confronti della norma avente forza di legge “perché se il giudice ritiene che la norma nazionale contrasti con la norma comunitaria, può disapplicare la norma nazionale anche avente forza di legge”. Lo “spostamento in alto” rende però “tecnicamente più arduo per il giudice sottrarsi alla qualificazione fatta dal governo a quei paesi”. Anche perché la direttiva 2013/32/UE “non è self-exceuting quindi la disapplicazione della norma di legge diventa molto più complicata”.

IL SIGNIFICATO POLITICO DEL DECRETO-LEGGE SUI PAESI SICURI

In secondo luogo, il decreto-legge sui paesi sicuri ha un significato politico. “Il governo – continua il prof. Esposito – conferma le proprie valutazioni, rivendica la propria competenza, ha operato delle modifiche ma non riguardano il Bangladesh e l’Egitto, che rimangono qualificati come paesi sicuri”.

LE TRE STRADE DEL CONFLITTO TRA GOVERNO E MAGISTRATURA

Ora si aprono due o, forse tre, strade. Il decreto-legge contribuisce a garantire maggiore solidità alle scelte del governo, perché lo cala in un contenitore che è di livello primario ma, come detto, non lo blinda. “Io vedo due possibilità. La prima è che il Tribunale di Roma adisca la Corte Costituzionale per far valutare la costituzionalità del decreto. Il giudice sospende il giudizio e solleva la questione di legittimità costituzionale davanti alla Corte costituzionale – illustra il professore -. Un’altra strada porta a sollevare la questione pregiudiziale difronte alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Quindi contestarne la conformità al diritto dell’Unione europea”.

La terza strada, quella forse più perigliosa, chiama in causa l’azione del Governo. “L’altra possibilità è che sia il governo a sostenere che tali provvedimenti della magistratura abbiano usurpato una funzione che non è la loro e quindi porti il contenzioso di fronte alla Corte costituzionale in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sostenendo che i giudici stanno travalicando i loro limiti”, dice il professore. Una strada che condurrebbe a uno scontro aperto tra poteri dello Stato. “La politica migratoria sta presentando dei fronti molto duri di conflitto tra i poteri dello Stato – conclude il professore -. Obiettivamente è un problema e anche la Corte costituzionale ha insistito sul fatto che debba esserci collaborazione tra poteri dello Stato, pur restando tra loro rigorosamente separati”.

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