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Cina

La guerra strisciante della Cina con la Nuova Via della Seta

Il Partito Comunista Cinese vuole diventare egemone del nuovo assetto geopolitico multipolare attraverso la Nuova Via della Seta. L'intervento di Francesco D’Arrigo, direttore dell'Istituto Italiano di Studi Strategici "Niccolò Machiavelli"

 

Lo straordinario livello di penetrazione a livello globale della cosiddetta Nuova Via della Seta o Bealt and Road Initiative (BRI) è attribuibile alle allettanti promesse del Partito Comunista Cinese di ingenti investimenti nelle infrastrutture e nelle economie delle nazioni disponibili a sottoscrivere accordi commerciali, spesso affiancati da attività di influenza e finanziamento nei confronti di politici e funzionari del Paese che firma tali intese.

Tuttavia, un numero crescente di partecipanti alla BRI ha imparato a proprie spese che gli investimenti ed i prestiti cinesi sottintendono una vera e propria colonizzazione delle infrastrutture, delle reti ferroviarie e stradali, dei porti marittimi, delle reti elettriche, dei sistemi di telecomunicazione e delle aziende strategiche nelle quali Pechino investe. La situazione è diventata così critica anche in Italia, che ha costretto più volte il Governo italiano a deliberare “l’esercizio dei poteri speciali golden power”, recentemente anche in merito al nuovo patto parasociale sulla governance della Pirelli.

La campagna di rilancio della Via della Seta, che è il fiore all’occhiello del partito comunista cinese portato avanti dal suo principale sponsor, il Segretario Generale Xi Jinping, ha permesso di celare dietro ad un apparente approccio diplomatico di soft power, non solo una strategia per esercitare pesanti ingerenze nelle scelte strategiche del Paese firmatario, la regione in cui si trova e le sue alleanze (per noi leggasi UE e Usa). Ma, cosa ancora più preoccupante, il PCC si è creato le condizioni per poter utilizzare queste infrastrutture per proiettare la sua potenza economica, tecnologica, di intelligence e militare in circa 140 nazioni in tutto il mondo.

Ecco perché, anche un conflitto a livello locale contro la Cina (Taiwan), potrebbe facilmente assumere dimensioni globali.

Le implicazioni strategiche della Via della Seta

La BRI è una delle caratteristiche principali del cosiddetto “sogno cinese” del presidente Xi Jinping, la sua aspirazione è quella di riprendersi ciò che l’alta burocrazia del partito comunista cinese insiste a definire il posto legittimo della loro nazione come “centro dell’universo”.

Le dichiarazioni del Segretario generale del partito comunista e presidente della Repubblica Popolare Cinese, dei vari esponenti del Governo e dei vertici del PLA sono sempre più ambigue e solo apparentemente contraddittorie. Le loro comunicazioni alternano toni diplomatici soft power a minacce esplicite, offerte di investimenti illimitati attraverso la Belt and Road Initiave in tutto il mondo, e dispiegamento della propria potenza militare, soprattutto nell’Indo-Pacifico ed intorno a Taiwan.

Il Presidente cinese Xi Jinping da un lato si mostra conciliante, come ha fatto incontrando a Pechino l’ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger, che a 100 anni continua a voler interpretare il ruolo che ebbe negli anni settanta, di promotore dello storico avvicinamento tra la Cina comunista e gli Stati Uniti.

Dall’altro Pechino flette i muscoli, ordinando all’Esercito Popolare di Liberazione di effettuare esercitazioni militari su larga scala ed incursioni aeree nelle aree sensibili intorno a Taiwan, per dimostrare il suo disappunto nei confronti del presidente Tsai Ing-wen, reo di aver incontrato il presidente della Camera Kevin McCarthy negli Stati Uniti.

Da un lato, salutando Henry Kissinger come un “vecchio amico”, il presidente della RPC rilascia dichiarazioni accomodanti: “non dimenticheremo mai i nostri vecchi amici e non dimenticheremo il tuo storico contributo allo sviluppo delle relazioni Cina-Usa e al rafforzamento dell’amicizia tra i due popoli. Cina e Stati Uniti sono ancora una volta ad un bivio, e le due parti devono fare di nuovo una scelta” – esortando l’ex Segretario di Stato e gli americani che la pensano allo stesso modo a “continuare a svolgere un ruolo costruttivo nel riportare le relazioni Cina-Usa sulla retta via”.

Dall’altro lancia moniti a quanti non condividono le politiche di Pechino, Italia inclusa, che ha manifestato l’intenzione di non rinnovare l’accordo sulla BRI e cancellare il pacchetto di 19 intese istituzionali e 10 accordi commerciali su trasporti, energia, impianti siderurgici, credito, cantieri navali che coinvolgono tutto il sistema industriale italiano ed ufficializzati a Villa Madama nel 2019 dal premier Conte e dal vicepremier Luigi Di Maio.

Accordi che non hanno portato sviluppi concreti sul fronte economico ed innescato ingerenze dal punto di vista politico. Ma soprattutto diventati insostenibili a causa dello sconvolgimento del contesto geopolitico globale provocato dalla guerra di aggressione della Russia all’Ucraina, che vede alleato e sostenitore del presidente Putin il suo omologo cinese Xi Jinping.

Ingerenze politiche che in queste ore sono arrivate al Governo italiano anche attraverso il giornale del partito comunista cinese “Global Times”, che in occasione della visita alla Casa Bianca del nostro presidente del Consiglio ha intimato: “La decisione italiana sulla Belt and Road Initiative dovrebbe essere presa senza influenza americana.” E ancora: “Meloni ha detto più volte che l’Italia può avere eccellenti relazioni con la Cina anche senza far parte del patto strategico. Nondimeno, l’impatto negativo potenziale è preoccupante in termini di fiducia politica e cooperazione.”

Xi Jinping sta preparando la Cina alla guerra?

Le recenti dichiarazioni e le aggressive reazioni di Pechino, oltre al nervosismo per l’inaspettata risposta dell’Occidente all’attacco delle autocrazie all’ordine mondiale, tratteggiano una serie di caratteristiche tipiche delle operazioni di deception (inganno) simile alla “Maskirovka” russa, sia per gli aspetti psicologici che per le scelte economiche di una politica estera sempre più assertiva, che si esplicita attraverso un’intensa e pervicace attività quotidiana di influenza strategica diretta sia contro gli esponenti politici dei Paesi ritenuti amici, come quelli che hanno firmato accordi sulla Nuova Via della Seta, sia contro quelli ritenuti avversari e nemici. Inoltre, sono aumentate, soprattutto contro i Paesi aderenti alla NATO, operazioni di guerra ibrida che vengono portate avanti contro i Servizi e sistemi di intelligence, ma anche nei confronti dei media e dei social, con l’obiettivo di ottenere effetti sia sintattici che semantici, manipolando le informazioni ed i sistemi d’informazione.

Secondo le analisi di diversi esperti, tra i quali il Prof. Edward Luttwak, la comunicazione interna del presidente Xi Jinping verso il partito ed il popolo cinese, dall’inizio di questo mandato presidenziale si caratterizza per il crescendo dei discorsi incentrati sulla metafora della “ciotola di riso”, come ha fatto il 21 giugno scorso, quando ha affermato che è imperativo prepararsi a “circostanze estreme”, dopo aver avvertito il 6 maggio, che la Cina deve essere preparata “a circostanze peggiori e agli scenari estremi” per sopravvivere a “venti forti, acque agitate e persino pericolose tempeste” – tutte parole in codice per identificare la guerra?

Con i medesimi toni si è espresso anche il 6 luglio quando, in visita di ispezione al quartier generale del comando del Teatro Orientale dell’Esercito Popolare di Liberazione (EPL), in qualità di presidente del Comitato Centrale del PCC e della Commissione Militare Centrale, la giurisdizione che comprende lo Stretto di Taiwan, ha chiesto di “rafforzare il senso di resilienza, effettuando con pieno impegno la funzione di combattimento.” Xi Jinping ha aggiunto che è necessario persistere nella considerazione e nel trattamento delle questioni militari dal punto di vista politico, aver coraggio e competenza nel combattimento, salvaguardando risolutamente la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo nazionali cinesi. In pratica ha ordinato di orientare ed incrementare l’addestramento in condizioni di combattimento reali per aumentare la capacità dell’esercito di combattere e vincere.

Gli incessanti appelli del presidente Xi Jinping alla “prontezza al combattimento” potrebbero significare che in realtà egli dubita che le forze militari cinesi siano pronte ad affrontare un conflitto militare, nonostante gli imponenti investimenti in armamenti. Ma soprattutto, l’accentuata bellicosità di Pechino e gli interventi economici orientati al “ringiovanimento del popolo cinese” suggeriscono motivazioni che possono anche essere interpretate come uno sprone a prepararsi a fronteggiare una futura guerra della Cina contro l’Occidente.

L’auspicio è che un Occidente distratto dalla guerra in cui lo ha trascinato il presidente Putin sin dal 2014, quando c’è stata l’invasione iniziale russa dell’Ucraina, non commetta i medesimi drammatici errori di sottovalutazione, che con il senno del poi ha dovuto riconoscere di aver compiuto, consentendo alla Russia di alimentare le sue crescenti ambizioni imperiali con il tentativo di cancellare lo Stato ucraino, causando la perdita di decine di migliaia di vite civili e militari, milioni di profughi, violando senza alcuno scrupolo tutte le leggi fondamentali dell’ordine internazionale e minacciando la pace globale.

Sia gli Stati Uniti che l’UE non compresero la portata dell’incombente minaccia russa. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2012, il candidato repubblicano Mitt Romney aveva identificato la Russia come il nemico geopolitico numero uno dell’Occidente, ma Obama vinse le elezioni screditando il suo rivale proprio in politica estera, perché ancora relegato a visioni da guerra fredda finita da oltre 20 anni.

Oggi, alla Casa Bianca c’è il presidente Biden ed il suo team, che ha completamente cambiato la strategia statunitense rispetto a quando era il vice di Obama, trasformando l’invasione russa dell’Ucraina in una potentissima unità delle democrazie occidentali, stravolgendo lo scenario di debolezza che si erano immaginati il Cremlino ed il suo alleato cinese. La guerra di aggressione russa all’Ucraina ha dato nuova centralità all’Alleanza Atlantica, ha rivitalizzato l’Europa e rafforzato i sistemi di difesa e deterrenza, inquadrando la Russia come la principale minaccia dell’Occidente.

Nel suo discorso al vertice dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico a Vilnius, il presidente Biden ha detto che “la guerra in Ucraina è una guerra tra una coalizione di democrazie e un’autocrazia russa che rappresenta una minaccia ai valori democratici che ci stanno a cuore, alla libertà stessa. Ma la democrazia sta vincendo!”

Allo stesso modo, per fronteggiare le crescenti minacce globali rappresentate dalla Cina in primis, gli Stati Uniti hanno rilanciato le alleanze fortemente sostenute dalla dottrina di politica estera del Presidente Biden, che promuove la cooperazione anche attraverso “alleanze flessibili”, come la Quad tra Australia, India, Giappone e Stati Uniti, AUKUS e Five Eyes. Partnership che riuniscono le principali democrazie in crescente allarme a livello globale, coalizzate nel respingere la coercizione e l’aggressione percepita in aree come il Mar Cinese Meridionale, e non solo. La risposta dell’Occidente alla sfida posta dalla Cina fino ad oggi è stata molto debole, ma c’è e comincia a preoccupare Pechino.

La dottrina di politica estera e questo approccio alla difesa dell’Amministrazione Biden, sono simili a quelle forgiate dalla strategia americana durante la Seconda guerra mondiale e durante la Guerra fredda, che hanno portato alla vittoria delle democrazie.

L’Italia deve scegliere il campo atlantista ed uscire dalla Via della Seta

L’Italia è un membro della NATO e del G-7 con una posizione geografica strategica nel Sud dell’Europa e nel Mar Mediterraneo. Tutti questi fattori ne hanno fatto un obiettivo primario per la penetrazione, la manipolazione e la sovversione da parte della Russia e del Partito Comunista Cinese, nel tentativo di utilizzare il punto d’appoggio italiano per espandere la loro minacciosa impronta in Europa. Con la firma dei memorandum sulla Via della Seta l’Italia rappresenta un punto d’ingresso strategico per i cinesi che intendono sovvertire gli equilibri nell’UE, man mano che la loro influenza economica si espande anche nel Mediterraneo ed in Africa.

La lunga lista di accordi con Pechino, culminati con la stipula della BRI, hanno messo a dura prova la credibilità ed il sistema italiano di allineamenti, trattati, convenzioni economiche e diplomatiche, creando forti preoccupazioni all’interno della NATO. I provvedimenti del Governo Draghi hanno imposto un immediato rientro dell’Italia nell’alveo atlantista e, nonostante il periodico riaffiorare di posizioni ambigue di alcuni esponenti politici, anche la premier Meloni sembra orientata ad impedire la piena realizzazione di questi accordi tra Italia e Cina, vista la minaccia che rappresentano per la sicurezza dell’Italia e della NATO.

Roma non può più stare con due piedi in una scarpa, deve decidere di uscire dalla Via della Seta non solo per motivi politici ma anche economici. Gli Stati Uniti sono il nostro mercato strategico ed il presidente americano Joe Biden ha lanciato un grandioso piano di rilancio economico da ben 6,8 trilioni di dollari, al quale le aziende italiane vogliono partecipare.

Ma per poter accedere alle licitazioni, l’Italia deve dimostrare di essere un alleato affidabile.

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