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Scopone

La filosofia dello scopone (e del whist) dovrebbe essere insegnata nelle scuole di buona politica

Il Bloc Notes di Michele Magno

Lo scopone scientifico ha sempre avuto tra i suoi innumerevoli appassionati, accanto a letterati e intellettuali prestigiosi come Luigi Pirandello e Mario Soldati, importanti uomini politici. Tra gli altri: Sandro Pertini, Giulio Andreotti, Ugo La Malfa, Luciano Lama, Giancarlo Pajetta, Carlo Azelio Ciampi. Non solo perché tra tutti i giochi di memoria e di ragionamento è forse il più interessante e complesso: “d’ingegno e virtuoso”, come lo ha definito Paolo Monelli. Ma perché, come recita l’ultima regola di Chitarella: “… philosophia scoponis est in longiquum spectare et ultra lucrum proximum remotos exitus considerare” (la filosofia dello scopone sta nel guardare e considerare, al di là del vantaggio immediato, il risultato finale). Inoltre, “…opportunitatem captionis intelligere et remedium necessitatis invenire” (valutare l’utilità di una presa e far fronte a una situazione imprevista): “hoc est studium magnum et subtile, quod scientiae dignitatem scoponi confert” (questo è lo studio eccelso e penetrante che conferisce allo scopone dignità di scienza).

Se sei dotto insegna, se sei santo prega, se sei prudente governa, ammoniva San Paolo. In questo senso, lo scopone scientifico — suggeriva Oscar Mammì, suo straordinario teorico — dovrebbe essere insegnato nelle scuole di buona politica come materia obbligatoria. Sventuratamente — ripeteva con l’ironia che gli era congeniale — queste scuole non sono mai state aperte.

Ma chi era Chitarella? Come per Omero, di lui non si sa nulla. Come per Omero, a cui gli antichi greci prima attribuirono ogni sorta di componimento epico, poi soltanto l’Iliade e l’Odissea, anche le sue opere più celebri sono solo due, ma anch’esse — nel loro piccolo — immortali: il “De regulis ludendi ac solvendi in mediatore et tresseptem” e il “De regulis scoponis”. Nell’edizione curata da Enrico Malato (Salerno Editrice, 2005) viene richiamata la ricerca condotta dal giornalista e storico napoletano Gino Doria sull’identità del misterioso autore. In una lettera del 25 febbraio 1946 inviata a Benedetto Croce, Doria ammette di aver investigato su quella identità ricavandone solo la conferma di una vecchia quanto scarna tradizione locale, secondo cui Chitarella sarebbe stato un prete napoletano vissuto nel diciottesimo secolo. Ma, in fondo, che importa? Importa che il secolo dei Lumi ci abbia dato non solo i sacri principi del 1789 (che sono stati sempre violati), ma anche le quarantaquattro regole di Chitarella (che invece non si possono mai violare).

 

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I tarocchi possono essere considerati gli antenati più antichi del bridge. Sono anche il gioco -tra quelli di carte- che ancora sopravvive, o che almeno sopravviveva fino a pochi decenni fa in Piemonte e nell’Europa centrale. Inoltre, dai tarocchi (con l’eliminazione degli arcani e della figura del cavallo) è derivato il mazzo di carte francese: 52 carte, come le settimane di un anno; 13 carte per seme, come i mesi lunari; 4 semi, come le stagioni; 12 figure, come i segni zodiacali. Coincidenze astrologiche non fortuite, poiché le carte venivano usate — in Cina come in Europa — anche come strumento di divinazione. Forse per questo motivo San Bernardino da Siena nel 1432 le aveva chiamate “opus Diaboli”. Opinione che conserveranno i puritani, che le definirono “the devil’s picture book”, il libro della pittura del diavolo. Lo stesso termine d’oltralpe “atout”, poi, deriva da “attutti” — denominazione domestica del seme di briscola.

Così come dal gioco italico del “trionfo” o della “ronfa” (un tresette briscolato) trae ispirazione il “triumph” inglese (poi “trump” e “ruff”). Il reverendo Hugh Latimer, vescovo protestante di Worcester (1485-1555), mandato al rogo dalla cattolica Maria la Sanguinaria, fu il primo a citarlo nel sermone “On the Card” tenuto a Cambridge nel 1529. Ma è nella tragedia “Antonio e Cleopatra” di William Shakespeare (1607), che lo sfortunato protagonista ne parla nel doppio significato di atout e di gioco di taglio. L’antenato diretto del bridge era  alle porte.

Questo antenato è il whist, assai diffuso nella seconda metà del Seicento tra gli strati più bassi della popolazione; e perciò considerato come un passatempo da cacciatori o scudieri di campagna, non degno di gentiluomini e nobildonne. Riesce a trasferirsi stabilmente nei ritrovi e nelle abitazioni dell’alta borghesia britannica solo un secolo dopo, grazie al successo riscosso dalle regole codificate da Edmund Hoyle nel suo “Short Treatise on the Game of Whist” (1742). Ventiquattro regole auree che, dando una solida base di certezze al conservatorismo dei sudditi di Sua Maestà, permisero al gioco di passare dall’alterco fumoso dell’osteria di campagna all’ovattata compostezza del circolo cittadino. Dalla natia Gran Bretagna il whist non fatica a sbarcare nel continente, invade la Francia sotto il regno di Luigi XV (1715-1774) e ne conquista la favorita, Madame Du Barry. Si giocava ovunque: nelle bettole come nella dimora di Madame de Staël e nelle sale del prestigioso hôtel Thélusson; e si continuò a giocare anche durante la rivoluzione.

Giocavano il principe di Talleyrand (1754-1838) e le mogli di Napoleone, Giuseppina e Maria Luisa. E francese era il più fenomenale giocatore di allora. Si chiamava — trattenete il respiro — Alexander Louis Honoré Lebreton Deschapelles (1780-1847). Generale dell’esercito e diplomatico, era anche un rinomato scacchista e, sebbene mutilato di un braccio, sapeva impugnare con maestria la stecca da biliardo. Sull’altra sponda dell’Atlantico, Benjamin Franklin (1706-1790) — dopo averlo appreso nel suo soggiorno londinese — divulga il whist a Filadelfia, da dove si propaga in America ancor prima della guerra d’indipendenza. Veniva giocato nel New England come negli stati sudisti, tra i piantatori di cotone come a bordo dei battelli che solcavano il Mississipi. E si barava molto, anche perché negli ambienti più elevati barare era apprezzato come prova di invidiabile destrezza.

 

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