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Giorgia Meloni

La destra di Giorgia Meloni tra passato e presente

Il Bloc Notes di Michele Magno

La ricostruzione anche per sommi capi del pantheon culturale di Giorgia Meloni è impresa ardua. Era apparso chiaro già alla conferenza programmatica di Fd’I (29 aprile-1 maggio). All’ingresso del salone del Centro congressi di Milano, campeggiava un assortimento di immagini a dir poco sorprendente. Tra i ritratti delle personalità più note, spiccavano quelli di Hannah Arendt e Margherita Sarfatti, Flaiano e Dostoevskij, Giovanni Paolo II e Longanesi, Pasolini e Guareschi, G.K. Chesterton e J.R.R.Tolkien. Venti cartonati a cui si aggiungeva una mostra dedicata alle donne “patriote”: da Tina Anselmi, la prima ministra dell’era repubblicana, a Jole Giugni Lattari, la prima missina sottosegretaria. Un pastiche gaddiano indecifrabile, riproposto sei mesi dopo nel convegno “Italian Conservatism. Europe, Identity, Freedom” (30 settembre-2 ottobre), organizzato a Roma dalla Fondazione Tatarella e dal think tank Nazione Futura. Obiettivo dichiarato: consolidare la collaborazione internazionale tra i conservatori per portare avanti valori condivisi come l’identità cristiana, la difesa della famiglia tradizionale, l’Europa delle nazioni, l’amore per la libertà dell’individuo, il contrasto a ogni forma di cancel culture. Un minestrone di idee condito con spezie tra loro spesso incompatibili.

Dal 2020 Meloni è presidente del Partito dei conservatori e dei riformisti (ormai lo sono tutti) europei. All’Ecr Party sono iscritti, tra gli altri, i postfranchisti di Vox, i clericali di Diritto e Giustizia al governo in Polonia, gli ultranazionalisti bulgari, i Democratici svedesi, reduci da un successo che ha scosso i tradizionali equilibri della socialdemocrazia scandinava.   Con un caro amico, il leader ungherese Viktor Orban, per il momento alla finestra. Una specie di “Internazionale nera” (da cui sono comunque esclusi Marine Le Pen e Salvini), insomma? Non esageriamo. La ricerca di una genealogia ideale lontana dalle polverose sedi del Msi, con i busti del Duce e i santini di Junio Valerio Borghese, in qualche modo ha dato i suoi frutti. La verità è che il conservatorismo all’italiana, molto più che una dottrina economica e sociale, si presenta come una postura culturale, quella che un riscoperto Giuseppe Prezzolini descriveva con queste parole: “Prima di tutto il vero  conservatore si guarderà bene dal confondersi con i reazionari, i retrogradi, i tradizionalisti, i nostalgici; perché il vero conservatore intende ‘continuare mantenendo’, e non tornare indietro e rifare esperienze fallite. Il vero conservatore sa che a problemi nuovi occorrono risposte nuove, ispirate a princìpi permanenti” (Manifesto dei Conservatori, 1972).

Addio al postfascismo, dunque? Pur con qualche reticenza e ambiguità, “Yo soy Giorgia” ci sta provando. E poco importa se, a tal fine, è necessario scovare degli antenati lontani dalla propria storia. Del resto, è complicato interpretare credibilmente la parte dei nostalgici di un regime che non si è mai conosciuto. Ha scritto Alessandro Campi che il primo fattore di discontinuità è biologico: sono scomparsi, strada facendo, i sopravvissuti di Salò rimasti fedeli per cinque decenni al mito mussoliniano. Nel frattempo, è cambiato il costume collettivo e sono anche cambiati i riferimenti culturali e simbolici. Meloni e gran parte del suo attuale gruppo dirigente sono cresciuti leggendo le saghe tolkieniane, non Giovanni Gentile, Julius Evola o Adriano Romualdi. Sulle pareti delle loro sezioni era appeso il poster di Borsellino e non quelli di Leon Degrelle o di José Antonio, come accadeva per la generazione di attivisti immediatamente precedente (L’ombra lunga del fascismo, firmato con Sergio Rizzo, Solferino, 2022). E, poi, è cambiato il mondo: con la fine della Guerra fredda e il crollo del blocco sovietico anche l’anticomunismo militante è diventato anacronistico. Non per caso, a cavalcarlo per due decenni è stato Berlusconi piuttosto che Gianfranco Fini. Certo, permane “una galassia di estrema destra, gli energumeni tatuati, rasati e vestiti di nero che sono la gioia di molti talk show, ma mi chiedo che forza politico-elettorale abbiano davvero. Culturalmente si limitano a rimasticare il simbolismo fascista in chiave di razzismo bianco e anti-islamico. Ma come aveva già spiegato Renzo De Felice il radicalismo di destra ha sempre attinto più al nazionalosocialismo che al mussolinismo. È un mondo che si compiace dell’alone diabolico e maledetto che lo circonda. Una buona gestione dell’ordine pubblico dovrebbe essere sufficiente, in un paese serio, per tenere a bada queste frange. Mi sbaglierò ma Meloni è più in linea col ‘finismo’ di quanto sembri e di quanto lei stessa ammetta pubblicamente” (“il manifesto”, intervista del 24 settembre scorso).

Beninteso, sono gli imperativi del conflitto in Ucraina e della crisi energetica a dettare l’agenda politica di Fd’I, mentre le grandi questioni etiche suscitano ancora divergenze e contrasti. Basti pensare ai temi del federalismo, dell’immigrazione, dei diritti civili, dell’aborto, del fine vita. C’è, allora, un’inclinazione critica diffusa tra gli intellettuali vicini  alla Fiamma tricolore (anche tra i meno conformisti come, ad esempio, Marcello Veneziani), perché ritengono che essa non rappresenta più un movimento volto a mutare l’ordine delle cose esistente? In realtà una “destra intransigente” c’è stata, ma nel secolo alle nostre spalle. L’ha chiamata così uno storico di orientamento marxista, Perry Anderson, in un indovinato saggio dal medesimo titolo apparso nel 1992. Secondo l’editorialista della “New Left Review”, i suoi esponenti più illustri sono stati quattro: Michael Oakeshott, Carl Schmitt, Leo Strauss e Friedrich von Hayek. Curiosamente, non figurano però tra i padri nobili di Fd’I. Eppure le culture politiche di cui sono stati indiscussi protagonisti non sono del tutto estranee al suo “nuovo corso”.

Benché provenienti da discipline differenti, i loro interessi si sono incrociati sotto la spinta del collasso della società europea, sfibrata tra le due guerre mondiali dal tracollo industriale, dalle rivolte operaie e dalla violenta reazione dei ceti medi. Schmitt, ammiratore di Joseph De Maistre e Doloso Cortés, si mette subito in luce durante la Repubblica di Weimar come il più fiero avversario cattolico del socialismo e del liberalismo. Le sue riflessioni sfociano così in quel “decisionismo” su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro. In Inghilterra, Oakeshott esordisce con un trattatello sulla religione d’impronta ancora anglicana, volto a dimostrare il carattere sostanzialmente unitario di civiltà e cristianità (Society Pamphlet, 1927).  Ma non è questo l’unico punto di contatto con il pensiero di Schmitt. Al giurista tedesco lo univa anche l’aperto disprezzo per le teorie democratiche. E i toni con cui giudicava il nume tutelare della tradizione liberale della madrepatria erano quelli tipici della destra radicale: “[…] il governo parlamentare, il progresso, la discussione, l’etica della produttività, sono tutti concetti -inseparabili dal liberalismo di Locke- […] assurdi e screditati”.

Oakeshott scrive questo atto d’accusa per la “Cambridge Review” nel novembre 1932, alla vigilia della vittoria nazista in Germania. Analizzando i misfatti del Führer, verso la fine del decennio ammetterà che la democrazia rappresentativa -per quanto fragile nei suoi presupposti istituzionali- aveva tutto sommato qualche pregio. Nondimeno, “[…] m’arrischio a suggerire che l’origine di molti dei principi che appartengono al pensiero conservatore è da rintracciare nella tradizione cattolica”, si affrettava a precisare con un esplicito riferimento alla forma costituzionale dell’Austria di Engelbert Dollfuss e del Portogallo di Antonio Salazar (The Social and Political Doctrines of Contemporary Europe, 1939). Dal canto suo, Strauss in quegli anni era entrato nel movimento sionista e aveva cominciato ad approfondire l’esegesi biblica di Spinoza. Trasferitosi a Londra nel 1934, cerca di dimostrare che l’opera di Hobbes tendeva a rimpiazzare il modello classico dell’ordinamento politico, basato sui privilegi aristocratici, con una teoria della sovranità giustificata dalla paura (The Political Philosophy of Hobbes, 1936). Nel 1938 ottiene una cattedra all’università di Chicago. Inizia a elaborare una teoria politica di cui si avvarrà la scuola più risoluta del conservatorismo americano. Due ne sono i punti centrali. Il primo: un ordinamento politico giusto deve fondarsi sulle immutabili esigenze del diritto naturale. Il secondo: l’ordinamento politico migliore è quello che rispecchia le diversità dell’eccellenza umana, e perciò a guidarlo deve essere un’élite di competenti (Liberalismo antico e moderno,1968). Nietzsche diventa così la sua stella polare: per Strauss il solo filosofo che aveva compreso pienamente quanto fosse profonda la crisi della modernità con l’avvento della democrazia di massa.

Nello stesso lasso di tempo, Hayek era entrato in una competizione al calor bianco con Keynes per affermare la supremazia del suo credo economico. Scoppiata la guerra, nel 1944 lancia da Cambridge -dov’era sfollato- un appassionato grido d’allarme contro la logica totalitaria della pianificazione centralizzata (La via della schiavitù), che lo rese famoso. La sua polemica prendeva di mira la sostanziale continuità tra socialismo e nazismo, entrambi perniciosi fenomeni di origine tedesca, e nel contempo segnalava i pericoli per la libertà insiti nel verbo laburista.  Scoraggiato dal clima di isolamento in cui si era venuto a trovare  dopo il successo dei laburisti di Clement Attlee, nel 1950 decide di partire per Chicago. Accantonati gli studi economici, si dedica all’elaborazione di una teoria della società e della politica che si sarebbe rivelata come la più ambiziosa tra quelle emerse dai ranghi della destra postbellica.

Nella sua riflessione, Hayek distingue due tradizioni di pensiero sulla questione della libertà. La prima è quella di matrice empirista -in prevalenza britannica- iniziata da Hume, Smith e Ferguson, la quale metteva l’accento sul carattere spontaneo del processo di miglioramento istituzionale, paragonabile nel suo funzionamento a quello dell’economia di mercato. La seconda è quella -in prevalenza francese- di matrice razionalista, che sulla scorta di Descartes e Comte ha ispirato la visione delle istituzioni come laboratorio di interventi e progetti di ingegneria sociale. Per Hayek, solo la prima linea di pensiero assicura reali condizioni di libertà, mentre la seconda le annienta (La società libera,1960). Più tardi, sarà costretto ad ammettere che i suoi ideali politici non avevano raccolto il consenso che meritavano; e che l’ordine spontaneo del mercato non solo escludeva necessariamente l’eguaglianza, ma poteva perfino ignorare la meritocrazia. In altri termini, si vedrà costretto a mettere in discussione l’assunto di Strauss, che fondava la gerarchia sociale sulla diversità dei talenti naturali. Hayek riteneva che questa fosse una verità troppo scomoda per essere divulgata con leggerezza, e confidava nell’efficacia dei vincoli religiosi per tenere a freno le “insofferenze” dei perdenti nella lotteria della vita (Legge, legislazione e libertà, 1973-1976).

Al di là delle loro differenti simpatie politiche e vocazioni teoretiche, tutti e quattro i pensatori della “destra intransigente” si interrogavano sui rischi insiti nella democrazia di massa, temuta come l’abisso nel quale sprofonda l’assenza di regole: “to mysterion tes anomias”, il mistero della mancanza della legge. Per scongiurare il pericolo, avevano eretto nel corso di sei decenni barriere più o meno resistenti all’usura del tempo. Ma una cosa è certa: le risorse culturali spese in questa impresa, indipendentemente da come la si voglia valutare, sono state davvero notevoli. La vastità degli interessi di Strauss e la sua statura intellettuale non avevano uguali nella sua generazione. Gli stessi cedimenti di Schmitt al nazismo non ne hanno pregiudicato la straordinaria capacità di fondere ingegno analitico e immaginazione metaforica, a cui si devono illuminanti intuizioni sul sempiterno problema del potere. Hayek ha saputo elaborare una critica dello Stato assistenziale la cui portata e la cui forza rimangono ancora attuali. In questa galleria di personalità, Oakeshott si distingue anche per le sue qualità letterarie. I suoi libri sono espressione di un raffinato esercizio di seduzione intellettuale. La sua prosa ha un tocco di edoardiana opulenza: “Nell’attività politica, dunque, gli uomini solcano un mare sconfinato e senza fondo: non ci sono porti dove ripararsi né superfici dove gettare l’ancora, e tanto meno un luogo di partenza o una destinazione prefissata, […] e non c’è neppure una spiaggia da scoprire per il progresso” (Rationalism in Politics, 1962).

La voce di questi pensatori era ascoltata nelle cancellerie. Schmitt fu consigliere di von Papen e ricevette Kurt Kiesinger; gli straussiani affollarono il Consiglio per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Ronald Reagan; Hayek fu incensato da Margaret Tatcher alla Camera dei Comuni; Oakeshott entrò nel breviario ufficiale del premier inglese John Major. Una destra non solo intransigente, dunque, ma anche autorevole. Lo sarà anche quella di Giorgia Meloni? Chi vivrà, vedrà.

*Il Foglio

 

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