skip to Main Content

Rileggendo “Le origini del totalitarismo” di Hannah Arendt

Il Bloc Notes di Michele Magno

I militanti jihadisti che vivono nelle periferie delle metropoli occidentali rifiutano la religione rituale e spiritualistica dei loro padri. Quello che li spinge non è un discorso strettamente religioso -nemmeno nella versione premiale del “paradiso dei martiri”- ma un’ideologia totalizzante. L’islam radicale appare a questi fanatici come l’unica utopia rivoluzionaria capace di dare identità, di opporsi a una realtà che disprezzano e di sovvertire entità statuali da cui sentono di essere disprezzati. Il capolavoro di Al Baghdadi è stato quello di aver dato forma concreta a questa utopia con il mito del califfato, che ha offerto ai giovani radicalizzati una sponda politica e ideale alla decisione di seminare morte e distruzione sulle due sponde dell’Atlantico come in Africa e in Asia.

C’è un celebre libro di Hannah Arendt, “Le origini del totalitarismo”, che può essere utile per riflettere su questo punto. Pubblicato nel 1951, fu allora osteggiato dall’intellettualità di sinistra per l’asserita analogia tra nazismo e stalinismo. È invece merito della filosofa tedesca, al di là di certe forzature presenti nelle sue tesi, la lettura del totalitarismo novecentesco come forma politica assolutamente nuova e diversa dalle altre forme storicamente conosciute -dispotismo, tirannide, dittatura, assolutismo, autocrazia.

L’essenza di questa nuova e diversa forma politica per l’allieva di Martin Heiddeger era il terrore, e il suo principio di azione era nel pensiero ideologico. L’ideologia totalitaria pretende infatti di spiegare con granitica certezza il corso della storia: i segreti del passato, l’intrico del presente, le vie del futuro: “Rimane il fatto -scriveva profeticamente Arendt- che la crisi del nostro tempo e la sua esperienza centrale hanno portato alla luce una forma interamente nuova di governo che, in quanto potenzialità e costante pericolo, ci resterà probabilmente alle costole per l’avvenire”.

Quarant’anni dopo, Francis Fukuyama sosterrà che, dopo il crollo dell’impero sovietico, la democrazia liberale non aveva più rivali (“La fine della storia e l’ultimo uomo”, 1992). Samuel Huntington sarà più cauto, perché a suo giudizio si stava già delineando un blocco “islamico-confuciano” in grado di mettere a repentaglio la civiltà occidentale (“Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale”, 1997). Ma torniamo a noi. Totalitarismo viene da “totalità”, e quindi esprime l’idea di qualcosa che abbraccia e pervade tutto. In questo senso, l’lsis è l’espressione più aggressiva e più violenta del totalitarismo del terzo millennio. L’Europa ci mise un bel po’ di tempo prima di capire la vera natura dell’espansionismo e dell’egemonismo hitleriano. Sta commettendo lo stesso errore? In qualche misura, sì. Basti pensare all’Arabia Saudita e agli Emirati del Golfo, patria dell’estremismo salafita-wahabita, che continuano a godere di una sorta di immunità diplomatica a Washington e nelle cancellerie europee.

Aggiungo che la distanza tra islam e cristianesimo resta incolmabile sul piano teologico. Ne erano convinti due intellettuali assai distanti tra loro: Alain Besançon, fervente cattolico e liberale di tendenza conservatrice, e Jacques Ellul, studioso appartenente alla scuola del teologo calvinista svizzero Karl Barth, schierato su posizioni di radicale ambientalismo e simpatizzante per gli ideali anarchici (è di Besançon la prefazione al libro postumo di Ellul “Islam e Cristianesimo. Una parentela impossibile”, Edizioni Lindau, 2006). Chi avesse voglia di sfogliarlo, potrà trovarvi un’analisi assai acuta dell’attrattiva che la religione musulmana esercita in certi ambienti cristiani, e non solo del vicino oriente. E cioè il fascino che promana da una critica severa della modernità capitalistica, a cui si contrappongono la stabilità delle tradizioni, lo spirito comunitario, il calore dei rapporti umani. In questa prospettiva, in quegli ambienti i musulmani sembrano perfino migliori degli ebrei, dal momento che onorano Gesù e Maria; cosa che gli ebrei non fanno.

Dopo ogni carneficina compiuta per onorare il Profeta, c’è sempre qualcuno il quale scopre che siamo in guerra. Ma resta da chiarire un equivoco. Perché non c’è nulla di più fuorviante nel dire guerra se non si precisa che solo uno dei guerreggianti è animato da un fanatismo religioso che porta decine di giovanotti infoiati a immolarsi nel nome di Allah. La verità è che il conflitto tra islam e occidente è da tempo un conflitto armato, non una semplice contrapposizione tra società teocratiche “per grazia di Dio” e società laiche “per volontà del popolo”. Raramente gli eventi storici sono stati promossi da larghe maggioranze. I kamikaze dell’Isis sono relativamente pochi, eppure bastano a tenere in scacco il mondo.

Che fare, dunque? Intanto cominciamo a dire le cose come stanno. Non si può cancellare la realtà cancellando le parole che la denotano. Se siamo in guerra, il califfato va combattuto con mezzi adeguati e sul suo terreno. I droni sono in grado di far esplodere qualche covo di jihadisti, ma noi continuiamo a fare affari con le élite arabe che finanziano il terrorismo fondamentalista.

Sul piano della sicurezza interna, inoltre, va ricordato ai miserabili speculatori per fini elettorali dei massacri nelle città europee e americane che i kalashnikov e i furgoni sono usati da immigrati perlopiù di seconda e terza generazione. Anche se ciò dovrebbe far riflettere chi ha teorizzato un malinteso multiculturalismo, il quale ha spesso creato società a compartimenti stagni, in cui il desiderio e la capacità d’integrazione sono pari a zero.

Lo sdegno, l’esecrazione, le marce, gli appelli all’unità contro i tagliagole del sunnismo radicale (a proposito, dove sono e cosa fanno i musulmani moderati?) sono tutti sentimenti e atti edificanti. Ma la palla è in mano ai governanti europei, americani e russi. Devono decidere se, invece di continuare a passarsela tra loro, intendono lanciarla oltre la rete. Certo, non si può abolire la produzione di camion, furgoni e suv (o chiudere tutti i luoghi di culto dei cristiani) ma il terreno principale della lotta al jihadismo è oggi costituito dal controllo della Rete, culla dell’indottrinamento e dell’addestramento dei fondamentalisti del Corano. In ogni caso, che il Dio dei Vangeli ci protegga.

Back To Top