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Isis

Isis, le barbarie in nome dell’Islam e le complicità di una parte dell’intellettualismo occidentale

Il tafazzismo di molti maitre-à-penser, di molti studenti e professori, di molti tastieristi del web occidentale su Isis, Hamas e non solo. Il corsivo di Battista Falconi

L’attentato di Mosca ci retrocede a un passato di barbarie dal quale, data la situazione di crisi internazionale, non ci sentiamo più così distanti come in passato. E la risposta inquisitoria, come la chiamerebbe qualcuno, data da Mosca con le confessioni estorte a colpi di botte, torture e mutilazioni, ci pare perfettamente coeva. Fatta la scontata professione di moralismo occidentalista, però, qualche riflessione a margine dice che le cose non sono così adamantine.

Sul piano geopolitico, tirare in ballo Usa e Inghilterra quali mandanti o complici degli stragisti assieme a Kiev è un colpo putiniano basso ma non troppo pericoloso. Il rischio reale di un ingresso della Nato nel campo russo-ucraino è meno imminente e reale di quanto si dica, così come quello paventato in seguito alle violazioni dello spazio aereo polacco. Siamo per fortuna ancora alla logomachia, a una guerra di annunci e minacce.

Sul piano geoculturale, invece, la situazione è più preoccupante. La mattanza del Crocus City Hall è solo l’ennesima conferma di ciò che l’integralismo musulmano più violento possa fare. Si dirà che anche tanti americani waspissimi hanno il vizio di entrare in scuole e supermercati sparando all’impazzata ma, per l’appunto, li releghiamo ad “altro”, al “fuori”: di testa e dalla nostra idea di civiltà. Il legame tra il jihad condotto a stragi degli innocenti, le azioni militari Isis e Houthi, le incarcerazioni, condanne ed esecuzioni comminate da Ayatollah e altri leader politico-religiosi maomettani, invece, è molto netto.

Che esista un Islam che collide frontalmente, violentemente, bellicosamente contro il nostro criticabilissimo way of life è altrettanto chiaro e non si tratta di qualche frangia radicale invasata e isolata, ma della punta estrema di un iceberg chiamato Umma, la comunità dei fedeli quasi sempre silente e rarissimamente protagonista di stentoree condanne. In genere, quando se ne avverte la voce, si tratta di un flebile distinguo.

Ma il problema vero non è questo, il problema siamo noi.

Che Israele sia uno stato ai limiti della democrazia liberale, che Netanyahu stia tenendo caldo il fronte con Hamas anche per stabilizzare la sua traballante poltrona, che alcuni diritti dei palestinesi siano negati da decenni, che l’uso della reazione di Tel Aviv sia sproporzionato, è vero. Detto ciò, viva Israele e abbasso Hamas, che non è solo né uno Stato sovrano né solo un gruppo terroristico, ma una sorta di esplosivo ibrido tra entrambi. Di come si viva a Gaza e nei dintorni sappiamo pochissimo, o meglio conosciamo soltanto le misere condizioni materiali dei suoi abitanti, rese note dal comprensibile umanitarismo dei nostri osservatori e commentatori. Se però quel popolo sia in gran parte complice consapevole dei suoi bellicosi dirigenti o se ne sia vittima perché soggetto alla dittatura, non è dato di capirlo davvero.

Nel frattempo, si protesta contro la rappresaglia israeliana, si invoca la pace, ma non si condanna in modo netto e inappellabile il 7 ottobre, giorno nel quale Hamas ha deciso di violare l’altrui territorio, così come ha fatto il barbarico Vladimir Putin, e di uccidere dei civili disarmati e pacifici, così come hanno fatto i barbarici assassini del 22 marzo. Due barbarie in una. Con la benedizione di molti maitre-à-penser, di molti studenti e professori, di molti tastieristi del web occidentale.

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