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Cia Crypto

Impareremo la lezione del caso Cia-Crypto? Il commento di Rapetto

Che cosa deve insegnare il caso Cia-Crypto svelato dal Washington Post. Il commento di Umberto Rapetto

Auscultati, non semplicemente ascoltati.

E non da adesso, non da quando le tecnologie più pervasive hanno cominciato ad insinuarsi nelle nostre vite approfittando di qualche svogliato clic nell’installazione di questa o quell’altra “app”.

E non i poveri disgraziati che – indifesi dinanzi ai più aggressivi strumenti di intercettazione –si ritrovano perforabili anche da tutt’altro che acuminati software di Pongo.

A farsi spiare da decenni sono state le realtà maggiormente sensibili dell’universo pubblico e privato. Poco mi importa di quel che è successo altrove, ma mi deprime che questo sia accaduto anche a casa nostra.

Il fornitore dei prodotti più blindati in assoluto nel mondo dell’elaborazione dei dati e delle telecomunicazioni – come è stato possibile constatare in questi giorni – dietro la facciata della candida aziendina svizzera aveva la Central Intelligence Agency che ne gestiva la regia.

Gli apparati “cifranti” che hanno garantito l’assoluta segretezza di messaggi, che battevano la concorrenza di qualunque altro prodotto per le loro straordinarie prestazioni tecniche, che sembravano prodotti da misteriosi elfi in un paesino che poteva essere quello di Heidi, si è appreso fossero forgiati secondo una infallibile ricetta americana.

Nulla di strano. Ad esser sincero non mi stupisco affatto anche se forse è l’ennesima occasione per riflettere sulla sicurezza nazionale, comprendendo che non si può rinviare oltre la soluzione alle tante e forse troppe questioni che sono sul tavolo.

Crypto AG, questo il nome della azienda elvetica al centro dello sbigottimento collettivo, ha sede nella pianura della Lorze in una cittadina di poco più di ventimila anime storicamente devote a Sant’Osvaldo e a San Michele. La località si chiama Zug (Zugo il suo nome in lingua italiana) ed è capoluogo dell’omonimo cantone. E’ un “comune patriziale”, ovvero un ente di diritto pubblico che gestisce proprietà collettive, in cui ogni famiglia originaria del luogo ha la responsabilità della manutenzione di ogni bene ricadente all’interno dei confini del territorio comunale.

L’atmosfera non è quella di un avventuroso action movie farcito di spie e doppiogiochisti, ma si respira una normale aria imprenditoriale per gli insediamenti commerciali e industriali presenti in zona. Nessuno avrebbe mai immaginato che proprio quei posti sarebbero stati l’epicentro di un terremoto dell’intelligence internazionale.

Una trasmissione televisiva della SRF Rundschau ha rivelato la vicenda, anticipando anche l’apertura di una inchiesta da parte del Consiglio federale e venendo poi confermata dal Dipartimento federale della difesa, protezione della popolazione e dello sport.

In poche parole l’azienda leader mondiale del settore – affidabile per antonomasia in virtù della neutralità svizzera – ha fornito sistemi crittografici per le comunicazioni per oltre 60 anni ad oltre 100 Nazioni (tra cui ovviamente l’Italia con il coinvolgimento delle sue articolazioni più delicate).

Alla faccia delle garanzie ritenute indiscutibili ed inossidabili, la produttrice elvetica di macchine cifranti ha permesso ai Servizi segreti Usa e a quelli tedeschi di intercettare e decodificare tutti i messaggi inoltrati e ricevuti da chi si serviva degli apparati etichettati come assolutamente inviolabili.

Una talpa all’interno della azienda aveva passato chiavi di cifratura o altre informazioni riservate a qualche personaggio dell’intelligence dalle risorse finanziarie in grado di corrompere i più integerrimi incorruttibili? Niente affatto. Nessuna mazzetta, nessuna manovra sottobanco.

La società all’inizio degli anni Settanta era stata semplicemente comprata per metà dalla Cia (o Central Intelligence Agency che dir si voglia, che già nel 1955 aveva messo gli occhi sulla allora minuscola impresa fondata da Boris Hagelin) e per metà dal Bundesnachrichtendienst (BND, che aveva utilizzato come prestanome una fondazione con sede in Liechtenstein).

Va bene. Ci siamo fatti fregare. E manco poco.

Se è difficile trovare rimedio (ma si ha modo di rileggere la storia di oltre mezzo secolo avendo ben chiaro lo svantaggio di aver giocato contro chi vedeva le nostre carte…), forse se ne può trarre un insegnamento e magari pure qualche spunto.

Adesso che si parla delle cinesi Huawei e ZTE (quest’ultima a maggioranza pubblica e quindi inevitabilmente influenzata dal governo di Pechino), vogliamo aspettare sessant’anni per il prossimo scoop oppure ci si arma di coraggio (e di competenze) e si affronta la questione in maniera radicale senza perdere altro tempo?

Vogliamo continuare a vivere al guinzaglio di fornitori di cui disconosciamo le reali intenzioni non commerciali, oppure ci si siede ad un tavolo e (senza bigliettini e “fisarmoniche” da cui copiare) si comincia a scrivere il tema “Cosa vorrei fare da grande”?

La tutela delle comunicazioni comincia dai sistemi operativi e arriva ai protocolli di comunicazione, alle applicazioni di rete, ai software di gestione del traffico, fino ad arrivare alle “macchine” e al loro “motore” costituito da processori e firmware dall’ignoto funzionamento.

Se aspettiamo che Davide Casaleggio o Luca Morisi ci indichino la strada, andiamo poco lontano. La vita non è “tutta un quiz” come cantavano Arbore, Frassica e C. a “Indietro tutta”, ma non è nemmeno tutta un social.

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