skip to Main Content

Voto

Il voto? Roba da anziani ricchi

Il corsivo di Battista Falconi

Il 28% di italiani che, secondo dati Swg riportati dal Corriere della Sera, ritiene inutile votare è un dato di grande interessante. Si tratta infatti di cittadini che non soltanto, presumibilmente, non si recheranno alle urne il prossimo 25 settembre (quando soltanto il 58% è davvero convinto di andare), ma che in generale considerano ormai ininfluente l’esercizio del diritto elettorale attivo.

È ovviamente difficile dare torto a questi nostri connazionali dopo alcune settimane che hanno confermato i difetti atavici dei partiti, in particolare la tendenza a impostare tutta la loro propaganda sulla polemica personale, per esempio sullo speculare palleggiamento di accuse relative a gaffe odierne o ripescate dal passato. E a ignorare quasi del tutto i temi reali di interesse della società che, anche quando vengono sfiorati, non prevedono analisi della benché minima complessità bensì soltanto l’elargizione demagogica di slogan assolutamente improbabili: dalla mensilità in più al milione di alberi, dal milione di posti di lavoro agli stipendi degli insegnanti da aumentare.

Di fronte a questo scenario desolante è pertanto comprensibile la tentazione di andare al mare il 25 settembre, quando in gran parte d’Italia il meteo lo consentirà ancora, e anche quella di lasciare definitivamente nel cassetto il proprio certificato elettorale. Ad aggravare la preoccupazione per questa tendenza c’è il dato anagrafico: sono infatti soprattutto gli under 54 a manifestare questa disillusione. Questo significa che proprio chi più dovrebbe chiedere garanzie per il proprio futuro è meno convinto di poterle ottenere tramite il voto, che invece resiste tra i più agée, forse per maggiore abitudine, forse perché partendo da posizioni più solide ritengono di poterle ulteriormente rafforzare grazie alla politica. Un probabile effetto dell’età media molto alta del nostro paese, che rende le persone più anziane un target importante da coccolare.

Ma c’è un altro recente 28% che, collegato a quello di cui si è avuta notizia ora, rende lo scenario ancor più significativo. Il dato – relativo alle ultime amministrative, rilevato da Tecné Italia e rilanciato da Avvenire – secondo cui la diserzione dal voto aumenta man mano che si scende di classe reddituale. Tra gli elettori meno abbienti, infatti, il 72% non è andato a votare poiché ritiene che nessun partito dia risposta ai problemi reali; la percentuale dei votanti sale al 63% delle classi a reddito medio e al 79% dei redditi più alti. Il quotidiano della Cei parla giustamente di un ritorno al “voto censuario”, cioè quello che aveva fatto da Ponte verso le moderne democrazie tra la fine dell’Ottocento e la metà del XX secolo

Ma oltre alla fondata impressione che i partiti siano astratti e interessati soltanto al mantenimento del proprio establishment, c’è un altro dato che incide nella sempre maggiore astensione: la tendenza dei vertici a scegliere e imporre le candidature dall’alto, senza tenere conto del legame tra i candidati e il territorio, cioè gli elettori. Il problema non è di oggi, è relativo anche alle modifiche della legge elettorale, ma in questa tornata ha assunto dei contorni paradossali. In moltissimi e anche prestigiosi casi si propongono futuri parlamentari in aree del paese totalmente distanti da dove hanno svolto la loro attività e acquisito la notorietà per la quale li si dovrebbe votare.

Per quanto sia banale dirlo, è sempre meglio ribadire che il voto, al di là della sua valenza teorica di partecipazione democratica, ha uno scopo eminentemente pratico, cioè cercare di determinare una realtà politica favorevole ai propri interessi personali. Non è una considerazione negativa, tutt’altro. Ragioniamo per esempio guardando ai referendum: quello sul divorzio del 1974 ottenne un’affluenza dell’87,7%, poiché gli elettori avevano ben chiaro quanto l’esito di quel voto sarebbe stato determinante per la loro vita. Quelli del 1990 sulla disciplina della caccia, l’accesso dei cacciatori a fondi privati e l’uso dei fitofarmaci, hanno raggiunto quote talmente basse da non essere stati validati. In questo caso l’errore è stato sicuramente di sottoporre alla consultazione popolare temi tecnici, di interesse diretto di una parte minoritaria della popolazione. Stesso esito hanno però avuto tutte le tornate referendarie tra il 1997 e il 2009, con risultati di partecipazione a volte di poco superiori al 20%. I temi oggetto del quesito in alcuni casi erano effettivamente di carattere molto peculiare, altri avevano invece un interesse ampio: ad esempio quelli sull’obiezione di coscienza, sulla magistratura, sul ministero dell’Agricoltura, sui rimborsi elettorali, sulla legge elettorale… Il mancato raggiungimento del quorum, in questi casi, indica una disaffezione più generale che ormai investe proprio, come è nel caso del 28% dal quale abbiamo preso spunto, non solo e non tanto l’utilità di una specifica consultazione ma proprio quella dell’esercizio del voto in generale, della manifestazione della propria opinione nell’urna.

Una rapida occhiata ai dati di affluenza delle consultazioni politiche finora svolte in Italia dal 1948 lo dice con una chiarezza inoppugnabile. Le percentuali sono state superiori al 90% fino al 1979, tra il 1983 e il 2008 sono scese tra l’80,63 e l’88,60% e dopo il 2013 sono ulteriormente scese sotto l’80%, per la precisione: 75,19% nel 2013 e 72,93% nel 2018. A parte qualche lieve oscillazione, negli ultimi 45 anni l’affluenza cala costantemente. Più di recente, poi, il numero di parlamentari è stato sensibilmente ridotto, contemporaneamente si sarebbe dovuto adottare anche un nuovo sistema elettorale che non è stato approvato e data l’impossibilità di garantire con il voto una maggioranza certa per l’intera legislatura, si è ampliato lo spazio per governi condotti e composti da persone che non hanno a che fare con i partiti, con i parlamentari e con gli elettori.

Un vortice di progressiva privazione di senso e di ruolo delle istituzioni determinate dalla volontà popolare. Che da un lato risponde proprio al sentimento diffusissimo di disistima verso il sistema partitico ma, dall’altro, alla sempre maggiore percezione che il potere non venga formato dal basso bensì dall’alto, mediante meccanismi di potere nazionali e soprattutto internazionali che sfuggono al controllo dei cittadini. Dalle norme europee di bilancio alle scelte geopolitiche degli Usa.

Gli italiani si sono dovuti abituare, così come i cittadini di gran parte del mondo, a rinunciare a parti importanti della loro libertà durante il periodo di pandemia, per ragioni di sicurezza sanitaria. E si stanno anche abituando anche a veder diminuire il loro livello di vita, il loro benessere, la loro sicurezza economica, le loro garanzie sociali, di welfare, la sicurezza di un futuro tranquillo mediante un adeguata trattamento pensionistico. E vivono tutto questo con una rassegnazione che rende superfluo anche il voto, antico e ormai forse desueto feticcio delle democrazie liberal-parlamentari.

Questa tendenza non è una peculiarità italiana, al contrario. Noi ci stiamo in questo modo avvicinando ai livelli di astensione degli Stati Uniti e di molti paesi europei e avanzati, nei quali già le percentuali di affluenza erano molto più basse delle nostre. Alle recenti elezioni legislative francesi ha votato meno della metà degli aventi diritto e Oltralpe si genera frequentemente un problema di “coabitazione” tra presidente e parlamento; così come a Washington tra Casa Bianca e Campidoglio.

 

Back To Top